Caro Direttore
lungi da me ogni desiderio trionfalistico, sia perché non ce ne sarebbe donde sia perché non rientra nei miei comportamenti; ma un riferimento personale alla mia vita professionale devo farlo e, arrivando alla fine dell’articolo, ti renderai conto del perché.
Tra poco più di un mese, nel prossimo giugno, sono stato invitato dall’Ordine dei Medici di Caserta a ritirare una pergamena che celebra i miei cinquant’anni di iscrizione all’Albo Professionale: sarebbero 51 se nel 1974, mio anno di laurea, non avessero saltato la sezione autunnale degli Esami di Stato abilitativi alla professione; e persi un anno di lavoro. Succede. Ma non recriminai più di tanto.
Non sarò certo solo io a ricevere la pergamena ed avrò l’occasione di rivedere colleghi della mia età con i quali non è tanto facile incontrarsi specie per chi, come me, sarà entrato nella sede di quell’ordine non più di dieci volte in cinquant’anni e solo per ritirare gli appositi ricettari di prescrizione di farmaci stupefacenti, perché allora così si faceva.
Cinquant’anni sono un “gap generazionale” comprendente ben due generazioni tra le quali le differenze caratteriali e professionali ed il relativo “modus agendi” si acuiscono col passare del tempo generando sovente difficoltà per una costruttiva reciproca comprensione.
Nulla da recriminare su questo: è una naturale regola di vita sempre esistita sin dai tempi di Adamo ed Eva. Ed è normale che sia così.
E siccome, Iddio ringraziando, ognuno di noi è unico nella sua apparizione sulla faccia della terra con tutti i suoi cromosomi diversi dai suoi coetanei come dai miliardi di altri esseri umani succedutisi nella esistenza del nostro pianeta, mi piace, come sempre, condividere qualche mio pensiero.
Uno di questi è quello di aver sempre avuto un grandissimo rispetto per chi avesse cronologicamente anche un solo giorno più di me; e sono partito dall’assunto che, se quel tale avesse voluto ogni giorno imparare una cosa, saprebbe una cosa più di me. Il fatto non mi sembra paradossale.
In funzione di questo non è che voglia assolutamente atteggiarmi a sapiente; voglio solo esporre quali sono state, professionalmente parlando, le mie “linee guida”, come si dice oggi, nella sola speranza che possano riuscire utili a qualche collega più giovane.
Ebbene le mie linee guida sono state solo due:
- La prima è stata sempre “quella di NON averne” perché quel paziente che entrava nel mio studio, proprio in virtù della sua unicità su espressa, poteva presentare nella sua patologia mille sfumature diverse da quelle di un altro; ma soprattutto perché quel paziente, in quel momento, lo vedevo io e non un mio collega seduto dietro qualche scrivania del Ministero della Salute a scrivere “linee guida” omologando persone diverse a schemi diagnostici e terapeutici uguali per tutti.
- La seconda linea guida mi era derivata dal più grande insegnamento mai ricevuta da un collega di molto più anziano di me quando, durante il giro in corsia nell’allora glorioso Ospedale di Teano, mi consigliò: “Claudio, ricordati che la mano sulla pancia del paziente ce la devi mettere SEMPRE”. Un velato esaltante riconoscimento alla semeiotica clinica, superiore, e necessariamente precedente, ad ogni indagine strumentale.
Non credo debba aggiungere altro: sarebbe superfluo.
Conto di ripeterlo, se mi sarà assegnata la parola, ai colleghi più giovani quando mi sarà consegnata la pergamena: in fondo non sarebbe altro che condividere con loro qualcosa che ho imparato negli anni in più ai loro. E, soprattutto, non imparata da nessun libro, ma da vita professionale vissuta con amore e dedizione.
Avrai compreso pienamente il perché di questo scritto: un invito alla libertà di essere sé stessi e di saper fare a meno di ogni “tutor” (altra parola odiosa) dietro qualunque scrivania sia seduto, a Roma o a Milano o a Timbuctu!
Claudio Gliottone