Non tutte le religioni festeggiano con la dovuta partecipazione la nascita del loro fondatore: noi lo facciamo e, al di là di ogni divagante e dilagante mondanità e imprecisione dei giorni e dei tempi, ci piace celebrare la nascita di Yehoshua, il nostro Gesù, “il figlio di Maria”, come più volte chiamato nei Vangeli.
Lo facciamo forse con trasporto maggiore che non nel ricordarne la morte, avvenuta per crocefissione sul monte Golgota; e questo ritengo sia giusto perché Gesù era anche un “uomo” e come tale ha completamente stravolto il pensare antico, mettendo al centro dell’universo ogni singola persona, ogni uomo o donna in quanto tale, essere vivente padrone della sua vita, da orientare per libero arbitrio verso il bene o verso il male. Lui predicava il bene, ma la sua creatura, la Chiesa, ha distorto sovente il suo discorso di “amore”, dividendosi presto nel suo interno e dando vita a terribili lotte fratricide che hanno contato centinaia di migliaia di morti: la strage degli Ugonotti, la Vandea, le persecuzioni di Calvino, quelle dei cattolici che, con la Controriforma e la Santa Inquisizione, hanno immolato come eretici illustri scienziati e pensatori, dimostrando sempre una barbarie di metodi che ancora fa rabbrividire, pur a distanza di secoli.
Così la “nascita” diventa il punto più importante, perché, rifacendomi ad un editoriale di Alessandro D’Avenia pubblicato giorni fa sul “Corriere della Sera”, essa rappresenta un “inizio”, scevro da tutto quello che può poi comportare nel suo evolversi.
D’Avenia cita la filosofa ebrea Hannah Arendt: “il corso della vita umana diretto verso la morte ci condurrebbe alla rovina ed alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che ci ricorda che gli uomini non sono nati per morire, ma per incominciare”, ed allora bisogna rinascere ogni giorno ed averne la forza; ma troppe volte non accade, come dimostra il tasso dei suicidi tra i giovani (la seconda causa di morte in occidente), dice D’Avenia. “Un Dio che dà la vita agli uomini non può volerne la morte”.
E conclude: “una cultura della natività non rende il bambino un idolo (cosa che serve in realtà all’egoismo ed al compiacimento dell’adulto), ma il protagonista di un inizio” cioè “responsabile della vita ricevuta… e non un mero consumatore” e ne crei altra.
Così, per fare “della vita un’opera d’arte occorre sapere: perché sei venuto al mondo? Di che cosa sei inizio? Quale tempo si inaugura con te? Se tu sparissi, cosa mancherebbe alla storia umana?
Buon natale, o buon “inizio” a tutti.
Claudio Gliottone

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