La pastiera napoletana è una di quelle cose che dovrebbero essere annoverate come patrimonio dell’umanità e ricordate sempre, non solo ogni Santa Pasqua. In passato abbiamo già avuto modo di rievocare i nostri ricordi d’infanzia a tal riguardo, paragonabili per “emozione” solo agli struffoli natalizi. Questa volta proveremo ad aggiungere qualche particolare in più.
Scrivemmo di ricordarle tutte allineate in ordine sul mobile del salone, ciascuna rigorosamente con un foglietto di quaderno a quadretti sopra, con il nominativo del destinatario. Una tradizione di famiglia da onorare ogni anno. Guai assaggiarle prima. Sulla nostra tavola arrivavano quelle che, secondo il controllo di qualità dei boss di casa, “erano venute male”. Bastava una cottura lievemente non uniforme, per dichiarare lo stato di scarsa qualità e presentabilità. Non si poteva fare brutta figura con nessuno di quanti l’avrebbero ricevuta quale augurio di Buona Pasqua.
Il grano cotto, misto agli altri elementi, doveva letteralmente sciogliersi in bocca e lasciare l’aroma, l’essenza ed il sapore di tutti gli altri ingredienti. Rigorosissima era la verifica del “grado di umidità” dell’impasto. Un bastoncino di legno secco, era utilizzato quale “misuratore”. Di tanto in tanto, durante la cottura in forno, veniva infilato dall’alto verso il basso nell’impasto contenuto nel recipiente rotondo. Estratto dopo pochissimi secondi, veniva controllato con attenzione maniacale, per stabilire il grado di cottura. La tecnica di tale controllo resterà per sempre un mistero.
All’epoca sulla collina di Santa Reparata ogni cucina dei due appartamenti di ciascun piano del “grattacielo” nel periodo pre-pasquale diventava un laboratorio di alta pasticceria. Il “grattacielo”, altro non era che quel palazzo su sei livelli, dai cui balconi degli ultimi piani si godeva di un panorama mozzafiato fino a riuscire ad intravedere il mare nelle giornate più chiare e limpide. In quella che era una grande famiglia, lo scambio degli auguri avveniva a colpi di pastiere. Tutte rigorosamente di grano duro, con qualche sporadica variante al riso. Una vera e propria gara a chi faceva la migliore. Quasi una specialità olimpica.
Gli ingredienti, seppur noti, erano sempre un mistero per quanto riguarda le dosi e la sequenza di mescolamento. Non veniva mai rivelato nulla, altrimenti si perdeva quel fascino di segretezza. Ognuno era convinto di avere la ricetta migliore.
Farina, burro o strutto, zucchero, sale, uova, scorza d’arancia e di limone, ricotta, grano cotto, latte, canditi, fiori d’arancio, limoncello. E tanta, tanta pazienza.
I fiori d’arancio, la fragranza della pasta frolla in cottura nel forno, unite alle essenze delle scorze grattugiate di arancia e limone inondavano tutti gli ambienti. Il profumo del del grano in cottura, correva per le scale dal primo al sesto piano, in un’unica esplosione di odori e sapori al punto che salendo o scendendo quelle scale si aveva come conseguenza immediata l’acquolina in bocca, preludio di un’estasi delle papille gustative. La stessa che sta venendo a te che leggi !!!!
L’arte della sfoglia da lavorare era unita a quelle striscioline da modellare con attenzione. La regola napoletana vuole che siano esattamente in numero di sette. Non una in più, non una in meno. Secondo una tradizione mista a leggenda, rappresenterebbero i tre decumani ed i quattro cardini dell’antica città greca. Il cuore del centro antico.
“I decumani, paralleli alla costa, attraversavano la città da est ad ovest. Quelli laterali simili tra loro. Leggermente più grande quello centrale. I cardini, invece, oggi identificati nei vicoli del centro storico, erano perpendicolari da nord a sud. Dividevano la rete stradale in isolati quadrangolari regolari”.
Un’altra delle tante leggende vuole che per ingraziarsi il mare e far tornare a terra i propri mariti sani e salvi, le mogli dei pescatori abbiano portato in offerta sulle spiagge di Mergellina i sette ingredienti base: ricotta, frutta candita, grano, farina, burro, uova e fiori d’arancio. Il tutto contenuto in sette ceste. Il mattino successivo quando le donne andarono sulla spiaggia per accogliere il rientro dei mariti, si accorsero che le onde del mare avevano mischiato tutti gli ingredienti e in una cesta trovarono una torta: la pastiera. Le sette strisce rappresenterebbero così il numero di ceste portate in dono al mare.
Ancora si narra che la pastiera sia stata creata dalla sirena Partenope per ringraziare gli abitanti di Napoli che le avevano donato quei sette ingredienti fondamentali.
In ogni casa che osserva le tradizioni napoletane, la pastiera si prepara il giovedì Santo. E’ presente non solo tra i dolci, ma anche nei modi di dire partenopei. La frase è ‘na fell’ ‘e pastiera è utilizzata per indicare una persona pesante, cupa, non tanto simpatica. Come una fetta del dolce, bella a vedersi ma immangiabile. Un’offesa quasi paragonabile a: casatiello senza ‘nzogna, per restare in tema di dolciumi pasquali.
La pastiera non è un semplice dolce, ma pura emozione. Poesia! Ogni fetta è un’opera d’arte da assaporare, con calma, a fine pasto o come spuntino durante la giornata, accompagnata magari da un buon limoncello.
Provare per credere.
Luciano Passariello