Il giorno dopo Carnevale per ricordare l’ingresso della quaresima. ‘a Quaraésema Un simulacro di donna, secca e brutta, costruita con una patata, che si intravedeva prossima all’orlo di una lunga veste nera, e un mazzo di ravanelli con ciuffo, per capelli. In seguito, la semplice costruzione iniziale venne sostituita da una specie di pupata, come ancora oggi si può spesso vedere passando nelle cittadine dell’entroterra vesuviano. A sta pupata non manca, però, mai la patata; a quest’ultima si appizzavano sette penne di gallina: sei nere e una bianca, a significare le sette settimane che separavano dalla Pasqua. Le penne venivano tirate una a settimana; l’ultima, la bianca, il sabato Santo. Il detto o adagio: “avimmo terata n’ata penna ‘a culo a quaraesema” sta a significare che è passata un’altra settimana ma anche (nel linguaggio spesso criptico del popolo napoletano) che si è dovuta fare una spesa imprevista. Insomma un poco come dire: “ce simmo terata n’ata mola”.
In questa giornata si mangiava di magro: ’o sarachiello sfritto cu na pummarola ‘e piennolo, con contorno di vruòccule ‘e foglia, quelli amari, insaporiti con un peperoncino rosso piccante.
Filastrocca che i ragazzi di un tempo recitavano il giorno dopo Carnevale per ricordare l’inizio del periodo quaresimale, simbolo che collocavano nei vicoli e nelle strade dell’antica Teano ‘a Quaraésema. Un fantoccio di donna, secca e brutta, che dai piedi pendeva una patata.
A sta Quaraesema non manca, però, mai la patata; infatti proprio alla patata si infilavano sette penne di gallina: sei nere e una bianca, a significare le sette settimane che separavano dalla Pasqua. Le penne venivano tirate una a settimana; l’ultima, quella bianca, il sabato Santo.
Possiamo affermare che questo sistema popolare, non era altro che un metodo per misurare il tempo, tempo di penitenza, basti ricordare che il giorno dopo carnevale le pentole utilizzate per la cucina venivano lavate con la cenere per sgrassarle dal grasso della carne. Cominciava così un lungo periodo di magra e astinenza che durava quaranta giorni, nell’attesa del grande giorno di festa che era la Pasqua del Signore.
L’attesa penitente ma allo stesso modo bella, dove si attendeva il proprio parroco che passava per le case per benedire le famiglie e i dolci e numerose pizze che ogni Mamma preparava per la festa, si preparava il grano per l’altare della reposizione volgarmente chiamato sepolcro, si viveva l’attesa della festa e si aveva un valido motivo per festeggiare il giorno della Festa.