Di solito, intorno alle cinque pomeridiane, o giù di lì, usava sorseggiare un tè. Lo preparava con cura: l’ acqua, prima che bollisse, ma appena si formavano le bollicine; tè in foglioline, da immergere, prese rigorosamente con le dita, senza che toccassero alcunché di metallo; infusione della durata non superiore a poco più di un minuto, da interrompere colando il liquido in una tazza ben calda; non più di due cucchiaini di zucchero ed assolutamente niente limone o nuvola di latte. Era un misto tra il tè preparato all’orientale e quello preparato all’inglese. Ma da almeno tre giorni il buon Damiano aveva rinunciato anche a questo solenne rilassante rito. Se ne stava pensieroso dalla mattina alla sera, lisciandosi la folta barba, i lunghi peli della quale attorcigliava ora ad un dito ora ad un altro, districandoli subito e poi gesticolando, come se giudicasse ogni volta una soluzione ad un problema che ne offriva poche. Non poteva non averlo notato Cosimo, ma, per riserbo, non aveva, fino ad allora, preso alcuna iniziativa. Si fece al fine coraggio e, con discrezione e senza dar troppo peso alla cosa, gli si avvicinò e :
“Damià – esclamò – ma che ti succede? Non ti senti bene? Stai così taciturno; manco il breviario ti sei letto e manco il te non ti fai da tre giorni. C’è qualche problema?”
“Qualche problema, Cosimì? Qualche problema? Qua mi sembra la “scodella di Galileo”, te la ricordi, Cosimi? Bisognava trovare il il volume di una sfera, partendo da una semisfera iscritta in un cilindro e avente a sua volta iscritto nel suo interno un cono: cose e’ pazze!”
“No Damià. Non la conosco: anche perché questo Galileo è vissuto molto dopo di noi. Io si e no mi ricordo il teorema di Pitagora e, con qualche sforzo, quello di Euclide, che sono vissuti prima di noi. Ma non ti angustiare. Di che si tratta? Forse posso aiutarti anche se la matematica non mi è mai sfagiolata.”
“Ti ringrazio. Adesso ti racconto. Ti ricordi quando, dopo che Diocleziano ci fece decapitare ad Antiochia, assieme ai nostri tre fratelli Antimo, Leonzio ed Euprepio, arrivammo in questo paese? Ti ricordi com’era bello, assolato, caldo, ricco di acqua e di vegetazione? Ti ricordi le terme, il teatro, il tempio di Giunone? E ti ricordi quanta gente veniva da Roma a villeggiare a Teano? Lo dice anche Orazio in una sua epistola.”
“Embè?”
“E poi nel Medioevo, con i longobardi, e fino a Garibaldi e Vittorio Emanuele… E hai visto oggi ch’è diventata? Una mondezza, una chiavica, Cosimì: una chiavica invivibile”
“E va bbè, ma tra qualche anno si aggiusterà tutto, sta’ tranquillo”
“E chist’ è o’ problema, fratello mio; chist’ è o’ problema, Ma chi? chi saprà e potrà risolverlo? Chi avrà le capacità e le possibilità di rimediare agli infiniti danni creati negli ultimi decenni? Chi potrà riaggiustare, tanto solo per fare un esempio, tutte le strade, dico tutte le strade del paese: o chi potrà farci restituire tutto quello che abbiamo perso nel tempo compresa la stima di noi stessi e il nostro orgoglio? Chi Cosimì? Quale Cesare o Augusto o Napoleone, o Cavour o De Gasperi sarebbe capace di fare tutto questo?”
“Hai ragione, hai ragione. Ma putess semp ascì nu’ Napoleone nostrano, un Pericle teanese, un Carlo Magno dell’Alto casertano!”
“Ahi sventura, sventura sventura! Questo è il problema , Cosimì: il grande pericolo che corriamo.
Assettate nu’ poc. Ti spiego. Quando si arriva al punto di invivibilità al quale siamo arrivati noi a Teano, (e risparmiami di fare la distinta delle infinite cose che non vanno, tanto ormai le conosciamo tutti), la gente comincia a stufarsi, a non farcela più a sopravvivere quando i paesi limitrofi vivono alla grande. Per quanto strano e mai accaduto qui, forse anche a Teano la gente potrebbe desiderare di voler cambiare; potrebbe riconoscere cause e colpe finora dissimulate dagli autori e sottovalutate o addirittura negate dalle loro vittime.
E allora che cosa succede? Succede che in tanti, in troppi, passano dall’ignavia totale al desiderio di fare qualcosa, di darsi da fare e, presi da irrefrenabile fregola, cominciano a scalmanarsi, fino a proporsi, un po’ alla volta, come onnipotenti taumaturghi.
Sorgono allora comitati, associazioni, pseudo-partiti, gruppi di pressione, gruppi di opinione, dai quali emergono spesso le solite persone che fino ad ieri, chissà perché, non si sono accorte di niente, han vissuto altrove, o, peggio, hanno plaudito a tutte le nefandezze via via compiute.
In questi casi, caro Cosimo, si corre il forte rischio che venga fuori un Masaniello di turno; tu conosci la sua storia! Perché la disperazione del momento, la insopportabilità di una situazione agli estremi, la voglia di cambiare tutto senza sapere come, sono spesso madri di pressappochismo e faciloneria, non supportate dalla conoscenza vera di quello che realmente si può fare e di quello che non si può fare: di quante forze si dispone, della lealtà di chi ci circonda, della affidabilità della loro partecipazione.
Si rischia, allora, che il rimedio sia peggiore del male: e questo non possiamo assolutamente permettercelo.
Non ci si può improvvisare “Che Guevara”: Masaniello forse sì, ma non è quello che ci serve.
Ci serve conoscenza della gente, delle famiglie, dei loro comportamenti recenti e passati, dei problemi reali e di come e perché sono nati, o da chi e perché sono stati creati, della storia recente del paese.
Se non impariamo a ragionare, Cosimì, ed il migliore momento per non farlo è proprio quando non possediamo serenità di giudizio e chiarezza di prospettive, continueremo ad affondare nella cacca.
Hai capito il problema?”
Il buon Cosimo era rimasto basito e lo diventava sempre di più.
Altro non seppe dire se non, per solidarietà al collega: “Damià, da domani manch’ io me piglio o’ ccafè; e me metto a pensà comm a’ te”.
Magra soddisfazione.
Claudio Gliottone