Quanti di noi, studiosi e non, leggendo, scrivendo o semplicemente dialogando, si sono chiesti “qual è il punto di partenza della nostra lingua” Lo studio in merito a questo interrogativo, ha origini molto profonde, ma un apporto eccezionale per definire il primordio della lingua italiana è legato senza dubbio a una straordinaria scoperta compiuta nel 1734 dallo studioso Erasmo Gattola, il quale dopo un’attenta ricerca tra le carte dell’Abbazia di Montecassino, riportò alla luce quelli che hanno avuto il merito di essere considerati i primi documenti della lingua italiana, ovvero i Placiti Cassinesi. Così chiamati perché riguardano il Monastero di Montecassino o sue dipendenze e perché conservati a Montecassino, sono conosciuti anche come “Placiti Campani”. Si tratta di quattro sentenze emesse nel X secolo dai giudici di Capua, Sessa Aurunca e Teano, per porre al riparo i bene e i territori dell’Abbazia, minacciati da signori e gastaldi dei luoghi circostanti che ne reclamavano il possesso. E’ bene rilevare che Placiti furono scritti in latino, ma la formula di giuramento che contiene l’elemento centrale della sentenza, fu scritto in volgare, proprio al fine di essere compreso da coloro che si apprestavano a recitare la formula e per garantire ai confini dei possedimenti una validità futura. I primi Placiti riscoperti furono quello di Capua del marzo 960 conosciuto anche come Giudicato di Arechi dal giudice Arechisi che aveva sentenziato la causa, quello di Sessa Aurunca del marzo 963 e quello di Teano dell’ottobre del 963. In realtà, a questi tre documenti, ne va aggiunto un quarto, che non può essere definito un Placito come gli altri, ma ha la forma di un memoratorium, ovvero di un documento che conserva la memoria dell’atto giuridico; quest’ultimo, relativo al monastero femminile di Santa Maria di Cengla situato a Teano. Dal contenuto della formula in volgare, possiamo ricavare la notizia di una contesa sorta tra il convento di Santa Maria e un altro ente; oggetto del contenzioso era anche in questo caso il possesso di una terra. In particolare Giovanni, custode del monastero, riferisce di una controversia tra tre privati, Leocaro, Abalsamo e Donnello, che rivendicano la loro proprietà su un appezzamento di terra, situato nel territorio di Teano, asserendo di averlo ottenuto in eredità dai genitori. La prova della proprietà è affidata a Giovanni, che avrebbe dovuto recitare la formula, sotto suggerimento del giudice Bisanzio. La straordinaria novità introdotta dai Placiti Campani, è legata soprattutto al fatto che in questo “periodetto quasi tutto volgare”, sono contenuti i primi elementi linguistici che segnano la separazione della lingua parlata da quella che viene considerata ufficiale, ovvero quella latina, gettando la luce sul fenomeno di utilizzo di una lingua parlata diversa da quella scritta. Quel “sao cco kelle terre” contenuto all’interno della formula di giuramento di Capua, Sessa e Teano, non raffigura dunque solo un elemento di interesse linguistico, ma rappresenta in particolare per noi teanesi, un motivo di orgoglio: grazie a questa prima rudimentale proposizione in volgare, siamo oggi a conoscenza di come il passaggio dalla lingua latina alla lingua volgare, o meglio dire, l’inizio di una presenza di un bilinguismo consapevole tra i parlanti, abbia avuto inizio proprio dal nostro piccolo territorio, conferendo ad esso quell’aurea di consistenza storica, della quale è sempre stato dotato.