L’incipit di un libro, di un articolo o di qualunque testo scritto, è ciò che convince a leggere anche il resto, ma anche ciò che scoraggia il lettore poco motivato a continuare. Chi scrive ne tiene conto, ma non significa che riesca sempre a raggiungere l’obiettivo. Non è sempre così facile incollare alla parola l’idea che si ha nella testa. É già una traduzione, è già un po’ tradirla. Non c’è l’empatia del faccia a faccia quando si scrive, c’è lo schermo di un computer a cui affidarsi per dire cose che non hanno alcuna garanzia di arrivare per come sono state pensate, senza filtri senza strane interpretazioni da parte di chi legge. É vero, la parola non è autoreferenziale ma non ha nemmeno un significato univoco; lo sapeva bene Platone che scrive 14 dei suoi 34 dialoghi contro retori e sofisti. Qualcuno ricordava ad Alessandra Petronzi di aver usato il termine progresso volendo intendere sviluppo, ma questa è solo una finta contraddizione; tutti abbiamo capito cosa volesse dire Alessandra e tutti (sicuramente anche chi notava l’errore) ne abbiamo apprezzato bravura e sensibilità. Quando i giovani, che per statuto concettuale sono manichei, riescono a vedere dietro la luce abbagliante di una vetrina (messa a punto da un mercato che conosce i gusti dei nostri figli molto meglio di noi) ne va sempre apprezzato lo sforzo, la rinuncia ad una superficialità che quasi viene imposta dal nuovo modello di vita. Anche il Vangelo dice che la verità ci farà liberi, eppure oggi la parola verità sembra giocare contro la parola libertà. I giovani sanno che la libertà non è una performance dell’uomo per autodeterminarsi ma è l’apertura della vita stessa nei confronti del mondo. É una disponibilità a lasciarsi raggiungere dalla verità dell’ESSERE. Se non ci apriamo al senso dell’essere mai potremmo afferrarlo, questo è il paradosso della libertà umana. Abbiamo tutti seguito sgomenti il destino delle due giovanissime donne in Iran, uccise a poco più di vent’anni: Mahsa per non aver messo bene il velo islamico e Hadith per protestare in nome di questa ingiustizia, loro si che hanno scelto la libertà, quella che fa rima con verità, altro che elucubrazioni filosofiche. É quando impattiamo con realtà come queste, che sentiamo sulle nostre ossa la necessità di bellezza, di libertà, di verità, che altrimenti restano parole prive di significato. I giovani possono essere tutto ma non reazionari. Eppure non c’è più spazio per le rivoluzioni. Nemmeno l’ultima quella del ‘68 è stata una vera rivoluzione. I fili erano mossi da un potere nascosto, che si è servito dei sessantottini per stroncare la tradizione assiologica, valoriale, della vecchia classe borghese. Era l’affermazione di un postborghese che sapeva di ultracapitalismo, di un capitale senza patria, senza più passioni umane, chiamato più tardi globalizzazione, in virtù di un linguaggio unico, asservito a un pensiero unico. É successo tante volte nella storia: le stesse brigate rosse, che nascevano per sovvertire il sistema, venivano poi usate dallo stesso sistema che, a loro insaputa, ne condivideva tacitamente scopi comuni, che nascevano come eversivi e finivano con l’essere funzionali ad un silente potere politico. Il caso Moro è il più alto paradigma di questa verità che continua ad essere più ufficiosa che ufficiale. Gli stessi Toni Negri in Italia e Gilles Deleuze in Francia, generano un’anarchia funzionale, vittime di un sistema che le converte in filosofie epigonali atte a reggere il sistema che volevano combattere. Erano delle vere e proprie fughe in avanti, che facevano perdere di vista i veri obiettivi. Mirarono a liberare il desiderio dai limiti, quei limiti dettati pur sempre dal rispetto per la vita umana. Questo trasformò quello che voleva essere un grande gesto eversivo in ciò che in realtà faceva comodo al capitalismo: indurci a consumare in maniera illimitata. Il capitalismo si innesta proprio su questo snodo tra i bisogni fondamentali dell’uomo e i suoi desideri tradotti in diritti. C’è una superstizione dei significati che rende difficile mettere in discussione il senso di alcune parole. La parola diritto evoca una delle cose a noi più care: la civiltà, la giustizia, ma uscendo dalla retorica dei significati ovvi, diventa più facile intuire che i bisogni sono più alti dei diritti (che spesso si prestano ad un uso ideologico proprio per questo intrinseco limite teoretico). Il bisogno è un’esigenza intimistica dell’umano, lo è molto di più del diritto, che può essere tenuto fermo anche come prepotenza dell’uomo sull’uomo: il diritto va fatto valere verso un altro me (per questo Simone Weil dice che il diritto penale puzza d’inferno: è vero che guarda al punire una colpa, ma sempre all’inferno siamo) è questo a renderlo teoreticamente insufficiente rispetto al bisogno che eleva al rango di umano senza avere nulla a pretendere. Il nostro stesso ministero prima si chiamava di Grazia e Giustizia, perché la seconda senza la prima, resta poca cosa. Sono cose difficili da dire queste, sono a metà strada tra il logico e l’ontologico, tra il sapere e l’intuire, tra il fisico e il metafisico, tra il pensante e il pensato. Però è proprio questo il vero filosofare, o perlomeno ne è il tentativo. La filosofia non è una scienza, è un esercizio dialogico per cercare di dare un senso a ciò che apparentemente non sembra averne. La filosofia non si impara dai libri, quella è solo la sua storia, in realtà la si fa spingendo il pensiero umano fin dove è possibile farlo. Il muro del linguaggio è un grande limite per riuscire in quest’esercizio difficile, non c’è infatti un solo grande sistema filosofico che non abbia inventato neologismi utili alla causa. Comincia Dante per la verità, per questo la nostra lingua è così bella: ha la sua origine in un canto antico che se intonato bene (come Benigni ha saputo fare) dà ancora i brividi per la sua grazia. Non è mai facile andare oltre le certezze acquisite, la filosofia riesce a farlo perché è spendibile come verità, lo è proprio perché non serve a nulla (se non a farci pensare). Questo significa anche che non è corruttibile, che non è comprabile. Questo è il suo vanto, per gli estimatori (e il suo demerito per i detrattori). Chi la critica, per poterlo fare, deve argomentare, sta quindi già filosofando ,rendendo il suo dire un’autonegazione. Questa è la verità incontrovertibile: è ciò che fa in modo che il suo negatore non riesca a costituirsi perché facendolo nega se stesso. E’ stato un salto nel buio, liberare il desiderio da quelli che sembravano essere orpelli ideologici di una classe dominante, ma la borghesia non era il capitalismo. Era pur sempre una classe dialettica figlia dell’illuminismo, che per quanto dominante per l’aspetto economico, era in grado di produrre coscienze infelici, che avevano contezza di quanto la forma merci stesse prevalendo sull’uomo, di quanto l’oggetto prendesse il posto del soggetto. Le ideologie sessantottine non si sono rese conto che capovolgendo un cubo quello sempre cubo resta. Con la stessa caduta del muro di Berlino, non è stata la libertà a vincere ma l’economia di mercato. C’è un volto anarchico del potere che è l’edonismo sfrenato, il permessivismo esasperato: condiviso a destra nell’economia e a sinistra per il falso mito del progresso. Il successo di Negri è congiunturale, l’uomo è ciò che il suo tempo lo fa essere, questo sembra insegnare la storia. Gli errori non sembrano essere grandi maestri di vita, continuiamo a non salvare il bambino, buttandolo via con l’acqua sporca. Basta guardare al berlusconismo, il vero ‘68 realizzato. Godimento illimitato, assenza di leggi, Villa Certosa evoca villa Salò di Pasolini, anche nei particolari scabrosi. Tutto è comprabile dice Dacia Maraini, dalle minorenni ai senatori, eppure invece di indignare resta persuasivo. Ancora oggi lo votano 3 milioni d’italiani senza che nessuno parli di analfabetismo politico. La nuova borghesia non produce più coscienze infelici ,non ci sono più padroni che sposano le tesi dei servi (come direbbe Hegel). I nuovi borghesi temono i proletari impegnati ,non inneggiano al fascismo ma neanche ne prendono le dovute distanze (non per un fatto nostalgico, ma solo di tornaconto elettorale). Criticano le leggi razziali ma nei fatti restano vittime di una pulsione securitaria che tende a chiudere all’altro, vedendo in questo un’azione nuova che nuova non è affatto ,visto che già i Babelici peccarono di questo egocentrismo. Oggi Schopenhauer è decisamente al potere, è pur sempre il filosofo del non senso. La filosofia greca nasceva già come prassi per impedire la forà, la dissoluzione della società. Già Platone è grande in questo: si ha comunità umana solo se c’è educazione adeguata ad essa, la chiama Paideia. É la nostra prassi a creare l’oggetto, lo dice la storia umana, siamo sempre soggetti attivi di una prassi, in cui siamo gettati per Heidegger: le origini della nostra prassi ci sfuggono sempre (Heidegger parlerà di esserci, di Dasein, mai di uomo. L’essenza è l’esistenza stessa non l’uomo). La prassi dell’uomo moderno mostra una libertà di manovra illimitata, anche il pensiero sembra poter circolare liberamente, ma questo succede quando il sistema è talmente forte da poter reggere qualsiasi critica, tanto poi ci penserà la nostra prassi a disinnescarne la carica esplosiva: chi è veramente pronto a rinunciare agli agi della vita moderna? Nessuno, ma proprio nessuno. Pasolini nei suoi Scritti Corsari , spiega bene come facesse il capitalismo a rendere qualunque gesto eversivo uno standard sociale, o addirittura una moda per tutti: i capelloni degli anni 70, per esempio ,volevano essere una forma di protesta estetica ,non certo gli iniziatori di un nuovo stile. Non esistono più regole? Allora non esistono neanche trasgressioni, tutto è concesso, perché tutto è espressione del sistema unico e non di massima libertà, come sembra essere. Pasolini è il primo a capire che il totalitarismo perfettamente riuscito è il consumismo con cui ci hanno lasciato libero il corpo solo perché ormai avevano preso la nostra anima. Gli Scritti Corsari sono il suo testamento intellettuale, per chi è contro l’omologazione culturale e la degradazione sociale che essa comporta. Ha cercato di restituirci una verità del suo tempo, la più autentica possibile, al punto tale che i suoi film erano censurati perché contro la morale comune. Ora qui bisognerebbe disquisire sul concetto di pornografia e capire se si addica meglio al pelo del pube o a comportamenti moralisti di una finta etica di facciata che sostenga putretudine e trivialità lì dove si era certi di non essere visti, ma questa è un’altra storia. Lo scandalo per la sua omosessualità segnerà tutta la sua esistenza, dilaniata dalla divaricazione tra amore e sesso. La donna dell’amore è insostituibile, è sua madre, per questo cercherà solo “la carne”, corpi senza anima, fino a trovare la morte .É stato uno dei più grandi intellettuali del nostro tempo, non di quelli a libro paga del sistema ,ma di quelli che cercavano la verità a qualsiasi costo. Una società misura la sua civiltà anche dal rispetto che porta ai suoi poeti e Pasolini è stato un grande poeta civile. Ancora oggi non se ne rispetta la grande eredità, ci ha lasciato gli strumenti per farci vedere quanto sia finta la nostra libertà (già di quel ‘68 scriveva di stare più dalla parte dei poliziotti, i veri proletari, piuttosto che dei figli di papà, universitari e benestanti, che dalla protesta cercavano privilegi non diritti sociali). Ci aveva messo in guardia dalla retorica sull’inalienabilità dell’anima ma noi ce la siamo venduta senza neanche tirare troppo sul prezzo. Faust lo aveva fatto per un buon motivo, noi nemmeno quello.
Anna Ferraro
Cara maestra, un giorno m’insegnavi che a questo mondo noi siamo tutti uguali; ma, quando entrava in classe il direttore, tu ci facevi alzare tutti in piedi, e quando entrava in classe il bidello ci permettevi di restar seduti.
cit. LUIGI TENCO