Il 14 agosto ricorre un triste anniversario, uno degli episodi più efferati dell’occupazione del Sud e dell’ espugnazione del Regno delle Due Sicilie: la strage di Pontelandolfo e di Casalduni.
Fu un episodio che provocò la distruzione dei due paesi, insieme contavano 12,000 abitanti, ed un numero imprecisato di morti, secondo R. Martucci “parecchie centinaia, forse un paio di migliaia”, tutti civili ammazzati a sangue freddo, fucilati o bruciati vivi; le donne violentate prima di essere uccise con le baionette; le case depredate prima di essere incendiate. Perfino il “Times” londinese ne parlò nel settembre 1861, stigmatizzando l’accaduto.
Sono orride le testimonianze di alcuni militari che presero parte all’azione (Carlo Margolfo; Angelo De Witt; Fondo Brigantaggio G11 Archivio dell’Esercito) e che ne parlarono nelle loro memorie, così come la relazione del deputato milanese Giuseppe Ferrari che rimase sconvolto da quanto visto, che qualche anno dopo dirà in Parlamento “Potete chiamarli Briganti, ma combattono sotto la loro bandiera nazionale; potete chiamarli briganti, ma i padri di quei Briganti hanno riportato i Borbone sul trono di Napoli. E’ possibile, come il governo vuol far credere, che 1.500 uomini comandati da due o tre vagabondi, tengano testa ad un esercito regolare di 120,000 uomini? Ho visto una città di 5,000 abitanti completamente distrutta, e non dai Briganti”.
Il governo impedì il dibattito su quel che accadeva al Sud perché voleva avere mano libera senza condizionamenti di sorta, per cui furono emanate leggi (ad es. la legge Pica), disposizioni ( sospensione dell’autorità civile e dei relativi tribunali ed instaurazione di un regime militare) che portarono alla sospensione, mai dichiarata, dello Statuto, e quindi ad una guerra, da un punto di vista legale, non solo mai dichiarata ma incostituzionale.
I savoiardi, nel loro tentativo di stabilizzare la conquista dei nuovi territori, non andarono per il sottile, usando il ferro ed il fuoco anche quando non sarebbe stato necessario: quella guerra, durata una diecina d’anni e combattuta soprattutto dal popolo, vide un numero di caduti superiore a tutte le guerre "risorgimentali" messe insieme, con l’impiego di almeno 120.000 militari piemontesi e di un numero altrettanto cospicuo di guardie nazionali. Infiammò tutte le regioni dell’antico Regno e si concluse, almeno la parte combattuta con le armi, con la devastazione morale, economica e civile dell’intero territorio. La storia ufficiale non ne parla se non di sfuggita. D’altra parte molti documenti sono stati distrutti o tenuti celati, dai famosi armadi di cui ha parlato il deputato Angelo Manna, ai resoconti parlamentari ed a numerosi atti del governo sabaudo. Un’amica storica mi dice che solo da otto mesi, cioè dall’autunno del 2013, è stato aperto agli storici l’archivio del sanguinario Cialdini.
Quella guerra da allora non è mai cessata, è andata sempre avanti, sotto forme diverse ma con analoga feroce determinazione. L’idea razzista e colonizzatrice nei confronti del Sud non ha mai abbandonato i nordisti (tra gli altri, Paolo Mieli in diverse dichiarazioni, ultima a Foggia il 05/06/2014; ma poi ognuno può farne esperienza diretta). Coloro tra noi che ancora parlano di unità, che si crogiolano nei miti del cosiddetto risorgimento messi in campo dalla storiografia ufficiale e portati avanti secondo un’efficace tecnica di lavaggio del cervello, dovrebbero guardare ai fatti nudi e crudi, in una prospettiva storica e con l’occhio disincantato dell’osservatore neutrale. Secondo me il metodo di analisi storica marxiana può essere un’efficace, anche se ammetto non unica, lente per osservare i fatti accaduti e che accadono.
La popolazione del Regno delle Due Sicilie è andata costantemente aumentando dall’inizio dell’800 al 1860; dopo ha visto una paurosa diminuzione, con la comparsa di un fenomeno mai osservato in quei luoghi: l’emigrazione per motivi economici (F.S.Nitti nel 1899:”Noi mandiamo ogni anno fuori di Europa, dal solo Mezzogiorno continentale, un vero esercito di quasi cinquantamila persone e i contadini di Basilicata, delle Calabrie, del Cilento, che non chiedono nulla allo Stato, nemmeno bonifiche derisorie, nemmeno consorzi mentitori, nemmeno tariffe di protezione, danno il contingente più largo. Io vorrei fare, io farò forse un giorno una carta del brigantaggio e una dell’emigrazione e l’una e l’altra si completeranno e si potrà vedere quali siano le cause di entrambi” F.S.Nitti “Eroi e Briganti”).
Il PIL dell’ex Regno, più o meno uguale a quello del resto d’Italia, è diminuito costantemente fino ad arrivare ai valori attuali, pari a circa la metà del centro-nord, e questi sono dati incontrovertibili. Quali le cause? Come nasce la questione meridionale? Non posso dare io la risposta, considerato che su ciò si sono esercitate e si esercitano le migliori menti, anche se io nel mio piccolo un’idea me la sono fatta. Mi sento di escludere alcune cause. Spesso viene tirata fuori una motivazione cultural-razzista, che già compariva al momento della conquista come si legge in tanti documenti dell’epoca. Ma allora non si spiega perché, quando, si direbbe in termini matematici, cambiano le condizioni al contorno, gli stessi esseri inferiori, o i loro figli, tirano fuori capacità inimmaginabili ed emergono in maniera prepotente. Non mi sentirei di buttare l’intera croce, che non vuol dire che siano esenti da colpe, sulle classi "dominanti" locali, abbastanza ristrette come numero, e sui politici e amministratori meridionali. Per le classi sociali, e qui può venire in soccorso il metodo marxiano: perché mai nessuna "classe", in nessun luogo ed epoca storica, ha fatto gli interessi generali o di altre "classi", ma ha badato solo ai suoi. Per la classe politica locale: anzitutto perché sappiamo abbastanza bene come e da chi è stata e viene scelta, e poi perché fino agli anni ’70 del secolo scorso l’Italia aveva un forte potere centralizzato. D’altra parte le infrastrutture vengono decise e concretizzate a livello centrale. Autostrade, ferrovie, linee veloci, aeroporti, forniture di energie, ecc. , in un secolo e mezzo, è difficile dire che non sono state realizzate dagli amministratori locali. Certo, dovevano e potevano premere, dovevano e potevano organizzarsi secondo gli interessi di chi li eleggeva. Non l’hanno fatto quasi mai, chissà perché. Al governo, negli ultimi anni e per un tempo non breve, c’è stata una forza politica espressione conclamata e diretta di un localismo esasperato e non nascosto. Mi viene in mente un episodio recente, uno dei tanti, quando si tentò di portare avanti l’idea di una TAV Napoli-Bari. Ci fu un’opposizione feroce e determinata, tanto da ripiegare su un eufemismo comico, Linea ad Alta Capacità, cioè il raddoppio del binario esistente. Questa ha solo reso palmare una realtà evidente dal 1860.
Oggi, per raffigurare quello che succede, mi vorrei servire di una metafora. Il Sud somiglia ad un pugile costretto a combattere con una mano legata dietro la schiena. L’avversario non solo lo riempie di botte, ma gli dice pure che rende lo spettacolo avvilente, che gli spettatori per vederlo diminuiscono mentre lui è forte e se l’incontro lo facesse con altri avrebbe ben altri introiti e guadagni. Certo non lo libererà facilmente e spontaneamente, potrebbe a sua volta prenderle. Chi gli ha legato la mano dietro la schiena? I suoi allenatori, l’avversario, se l’è legata da solo, è nato così e quindi l’ha avuta da sempre? Ognuno si può dare una risposta, secondo le sue conoscenze, i suoi interessi e le sue sensibilità.
Accidenti, mi accorgo di aver scritto troppo, forse approfittando in maniera eccessiva dell’ospitalità del sig. Direttore.
Avrei molto altro da dire, ma sono costretto a fermarmi qui.
Gino Gelsomino