I costituenti del ‘48 concepirono, di proposito, una forma di governo debole poiché, nell’immediato dopoguerra, l’esigenza primaria era quella di garantire la coesistenza tra ideologie partitiche radicalmente diverse (che riflettevano la contrapposizione internazionale tra blocco occidentale – filo americano – e blocco orientale – filo sovietico).
La debolezza dei governi, che attribuiva ai partiti un’assoluta predominanza, non rappresentava, in quel determinato momento storico, un problema particolare in quanto l’Italia, che aveva perso la guerra, non avrebbe mai potuto svolgere ruoli di protagonismo sulla scena internazionale.
Un simile assetto, necessario in un Paese profondamente diviso, e che si era da poco messo alle spalle il dramma dell’esperienza fascista, diede vita alla “democrazia consociativa” che, seppure condivisibile in linea teorica, divenne ben presto una sorta di “comunella” tra partiti, preoccupati più dalle beghe interne e dai propri interessi che non dalle reali esigenze dei cittadini e del Paese, con governi del tutto impotenti e che cambiavano alla velocità della luce.
Nell’agosto del ’93, dopo lo sfaldamento del sistema partitico della Prima Repubblica, e all’esito di una consultazione referendaria che invocava una riorganizzazione delle istituzioni, il Parlamento approvò le “Leggi Mattarella”, nel tentativo di portare il Paese fuori dalla palude dell’ingovernabilità, privilegiando un principio maggioritario più funzionale ad una democrazia competitiva (in cui chi vince governa e dopo 5 anni si sottopone al giudizio degli elettori!!!).
In realtà, il tentativo di stabilizzazione del sistema del 1993 non poteva reggere senza il relativo adeguamento della struttura dello Stato e la rimozione di quegli “ostacoli ordinamentali” (su tutti, il bicameralismo perfetto) che impedivano la completa attuazione di una logica bipolare e maggioritaria.
Pertanto, a livello nazionale, seguì un ventennio di alternanza tra governi di centrodestra e centrosinistra, caratterizzati dall’instabilità delle rispettive maggioranze e dall’impossibilità di porre realmente in essere i propri programmi elettorali mentre, a livello locale, soprattutto grazie alla L. 81 del 93 e alla L. Cost. 1/99, si dava stabilità ai governi degli enti territoriali (Comuni e Regioni), che possono contare su maggioranze solide e perseguire i propri programmi.
Le elezioni politiche del 2013 ci hanno consegnato un Paese in una situazione di stallo politico–istituzionale senza precedenti in cui c’è un sostanziale equilibrio tra gli schieramenti di centrosinistra, centrodestra e movimento cinque stelle (scenario molto più che probabile anche alle prossime elezioni).
La debolezza del Parlamento si palesava, in tutta la sua drammaticità, nell’incapacità di eleggere un nuovo Capo dello Stato, tant’è che Napolitano, all’atto della sua rielezione, chiese a gran voce un Governo di larghe intese, il cui “mandato imperativo” era quello di consentire al Parlamento di elaborare riforme elettorali e costituzionali in grado di restituire stabilità e governabilità al Paese.
Il “Patto del Nazareno” tra Renzi e Berlusconi (senza i 5 Stelle che rifiutarono qualsiasi forma di dialogo con il “sistema dei partiti”) doveva servire esattamente a scrivere insieme tali riforme.
Ed è in quell’occasione che furono concepite l’attuale Riforma Costituzionale e l’Italicum, ampiamente condivisi anche dal centrodestra, che oggi sostiene il NO solo per interessi di parte.
La Riforma Costituzionale (unitamente all’Italicum), dunque, non fa altro che completare l’intento riformatore che ha avuto inizio nel ’93 e di cui il nostro Paese ha un disperato bisogno, nel tentativo di dotare i futuri governi (a prescindere dal loro colore) di quella stabilità necessaria ad attuare le proprie politiche, seppure nel rispetto delle minoranze, e di snellire le procedure parlamentari.
E non solo!
Quando nel 2001, con la Riforma del Titolo V, il nostro Paese provò a virare verso una forma di Stato Federale, dotando le Regioni di autonomia legislativa e finanziaria proprie, la maggior parte di esse, anziché sfruttare l’enorme opportunità che gli veniva concessa, hanno decisamente abusato dei nuovi poteri, producendo un debito enorme ed arrivando addirittura a mettere in discussione la supremazia dello Stato.
Si pensi alla mole impressionante di controversie tra Stato e Regioni che, dopo il 2001, ha snaturato completamente il ruolo della Corte Costituzionale, oramai divenuta “giudice dei conflitti più che dei diritti”.
Tuttavia, se da un lato, l’attuale riforma costituzionale, ridimensiona il ruolo delle Regioni, riaffermando il concetto della supremazia dello Stato, dall’altro, offre loro una grande chance: quella di eleggere dei propri rappresentanti che faranno parte di un organo istituzionale nazionale, il nuovo Senato delle autonomie, in grado di interloquire ed interagire direttamente (ma senza veti strumentali e infiniti) con il legislatore ed il Governo per dare voce alle reali esigenze degli enti territoriali (Comuni e Regioni).
Oltretutto, lo spostamento del potere decisionale a livello comunitario e la necessità, non più rinviabile, di una reale cessione di sovranità da parte degli stati europei rendono decisamente anacronistica la pretesa di maggiore autonomia delle Regioni.
Ovviamente, quest’ultimo concetto vale se, come me, si condivide l’opinione per la quale non ci può essere un futuro roseo per l’Italia al di fuori di una nuova Europa, politicamente più forte ed in grado di attuare politiche economiche e sociali a sostegno dei popoli.
Rispetto al 1948, la realtà storica è profondamente mutata e il nostro Paese potrebbe avere delle grandi opportunità nell’attuale contesto politico europeo (in cui brilla la sola Germania e le altre nazioni vivono nell’incertezza), provando a riprendersi quel ruolo di protagonismo che ci fu negato dopo il secondo conflitto mondiale.
Per fare questo, però, servono governi più stabili e legittimati a livello nazionale, in grado di essere credibili nella discussione all’interno dell’Unione Europea (non bisogna essere politologi per comprendere che anche in politica conta la stabilità dei rapporti e che, fin quando invieremo in Europa un Presidente del Consiglio diverso ogni anno, nessuno darà mai peso alle sue parole).
Chi non riconosce questo, al di là delle legittime opinioni divergenti, non sta difendendo la Costituzione ma, semplicemente, preferisce guardare al passato più che al futuro.
Io voto SI, perché il 4 dicembre abbiamo un appuntamento con la storia: in ballo non c’è il futuro di Renzi, ma qualcosa di molto più importante per tutti quanti noi!!!
Giovanni Scoglio