Si sarebbe potuta tagliare a fette, tanto era avvertibile, la malinconia che pervadeva tutta la piccola chiesa dei nostri santi, eppure era la loro festa, appena due giorni fa. Nessuno li aveva trascurati: avevano indossato i vestiti buoni ed i gioielli avuti in dono come voti per aspettative soddisfatte o per desideri sperati, erano stati messi sul “tosello”, sopra l’altare maggiore, il numero delle candele accese era triplicato, i fedeli a rendere omaggio non erano mancati, con la mascherina e distanziati, come prescritto da De Luca; pur tuttavia una tangibile mestizia traspariva dai volti tirati di Cosimo e Damiano. Era una festa strana, diversa, quasi triste: forse non era proprio una festa. E così, a sera, chiuse le porte e venuto il buio ad invadere chiesa:
“Damià, Damià” – sussurrò Cosimo svestendosi del pesante mantello – “come ti senti?”
“E come m’aggia sentì, Cosimì?” – gli fece eco Damiano, sprofondandosi su una sedia ancora calda per l’ultima presenza ospitata – “Mi fanno male i piedi e la schiena: sono ventiquattro ore che stiamo in piedi, in bella mostra di noi, mi sento stanco ed avvilito. Ci voleva pure il covid a tenerci chiusi qui dentro anche il giorno dedicato a noi. Sai quanta gente, proprio per la presenza del covid, ci aspettava fuori di qui, per invocare il nostro aiuto, la nostra vicinanza, il nostro sostegno e, perché no, qualche nostra pressione sul Principale perché faccia smettere questa pestilenza? E invece niente.”
“E’vero. E’vero, Pur’io mi sento na’ meza schifezza! E poi era così bello quando ti mettevano sul carro tutto addobbato, noi vestiti sempre più belli, con gli ex voto attaccati ai mantelli, con la banda in testa, gli scauts a seguire assieme a tanti religiosi, e dietro una folla enorme di fedeli, a pregare con le candele accese in mano ed a voce così alta da farla arrivare direttamente a Lui.”
Gli occhi gli si rigarono di lacrime; le labbra gli si seccarono: cercò un bicchier d’acqua, che, per fortuna, quel giorno almeno, sgorgò veloce dal rubinetto, e riprese:
“E poi era un anno che volevo uscire un po’, girare per il paese, vedere cose nuove e belle fatta dalla amministrazione comunale, l’illuminazione pubblica, le strade pulite, le vetrine addobbate, il campanile! Il campanile dell’Annunziata! Il Sindaco, o il Vice Sindaco e la giunta al completo camminare devota davanti a noi: e la banda, la banda Città di Teano, ad allietare gli animi…”
“Cosimìììì, tu sì rimast’ ai tiemp’ e’ Pappagone! Cccà nun ce stà cchiù niente! E’finito tutto! Ti ricordi che quando passavamo davanti all’Ospedale ci fermavamo qualche minuto e le finestre erano gremite di malati che speravano da noi, medici sì, ma soprattutto santi, quello che i nostri colleghi di oggi non riuscivano a fare, e non per loro incapacità, ma per limiti umani? E mò che ci fermeremmo a fare? Nun ce stà chiù niente. E la Banda Città di Teano te la sei sognata stanotte? Sono decenni che è sparita! E le strade pulite e illuminate? Non vedi l’erba che cresce rigogliosa in pieno centro tra le “senghe” delle basole, e le luci che sovente restano spente in interi quartieri? E il vice sindaco e la giunta? Ma sarebbero quelli di ieri, o quelli dell’altro ieri, o quelli di un mese fa? O forse stanno pensando nuovamente di cambiarli? E il concertino che la sera si teneva in Piazza Moro, o, per essere più precisi “davanti alla pretura”, dove si potrebbe tenere se la pretura non c’è più? Famme stà zitto, va’, famme stà zitto…”
“Oh, Gesù, Gesù. Io mo’ nun c’avev’ pensato”
“E ce vuò pensà tu, Cosimì? Nun ce pensan i teanesi e ce vuò pensà tu? Ma famm’ o’ piacere…”
A quest’ultima frase il buon Cosimo non riuscì proprio, per quanto ci provasse, a biascicare risposta: le labbra, stavolta, gli si erano proprio incollate. Corse di nuovo in sacrestia a riempire il bicchiere di acqua, ma il rubinetto si limitò a bofonchiare strani rumori: non un filo del prezioso liquido. Era scattata l’ora X.
Claudio Gliottone