Caro Direttore,
mi ha destato sgomento l’articolo a firma Gino Gelsomino, apparso qualche giorno fa sulle pagine del tuo giornale.
L’autore, a proposito dell’Unità d’Italia, riprende il tema, ormai trito e ritrito, dello "stavamo meglio prima", riferendosi a idilliache situazioni di vita nel Regno delle Due Sicilie sotto il governo borbonico, sopraffatto in una guerra d’invasione neppure dichiarata, dal Regno sabaudo. Ed attribuisce a quella "invasione" "l’origine di tanti mali della nostra nazione: la corruzione; il rilevante debito pubblico; l’occupazione dello stato da parte dei partiti; la burocrazia onnipotente e devastante. Farebbe bene a leggersi il recente libro di Paolo Macry, -Unità a Mezzogiorno. Come l’Italia ha messo insieme i pezzi- al quale fa recente riferimento nella sua ultima opera- I conti con la Storia – Paolo Mieli. Il succo di tutto sta forse nella frase pronunciata da Massimo d’Azeglio a immediato ridosso della conquista garibaldina: "Nessuno più di me stima Garibaldi, ma quando s’è vinta un’armata di 60.000 soldati, conquistando un regno di sei milioni di abitanti, colla perdita di otto uomini, si dovrebbe pensare che c’è sotto qualcosa di non ordinario".
Probabilmente quella corruzione che il nostro vede nascere dopo l’unificazione era imperante nel regno borbonico, se intere armate non spararono un colpo e tanti dignitari di corte furono i primi ad andare incontro a Garibaldi; se il parlamentare inglese William Gladstone, nel 1851, definiva il Regno delle Due Sicilie come "la negazione di Dio eretta a sistema di governo". Nel giro di pochi giorni, nel settembre del 1860, tra la nobiltà, i dignitari, i militari ed il popolo, non c’è nessuno che non inneggi a Cavour e a Garibaldi, in una città dove, dice Settembrini, "erano borbonici perfino i gatti di casa". Alessandro Nunziante, il generale più ascoltato dal re, il ministro della guerra Salvatore Pianell, persino il conte d’Aquila, zio del sovrano, si trasformano subito in "grandi convertiti". Certamente gli inglesi odiavano i Borbone e furono magna pars nella loro sconfitta, lo dice anche l’autore, ma un motivo per questo ci dovrà pur essere. E non è certo un motivo di espansione perché mai gli inglesi si sarebbero potuti impadronire del nostro meridione per una infinità di cause. Anzi molti di loro temevano una unificazione territoriale italiana così politicamente vicina, allora, alla Francia di Napoleone III. C’era sicuramente, in quel popolo abituato da secoli alla democrazie, una naturale repulsione per uno sistema, come quello borbonico, che si reggeva sul potere assoluto, pronto ad elargire e subito ritirare carte costituzionali ormai vigenti da decenni e decenni in tutta Europa. Molti anni prima lo stesso Metternich, nel 1830, aveva affermato che una rivoluzione nell’Italia meridionale era impensabile perché quello meridionale "era un popolo mezzo barbaro, di una ignoranza assoluta, di una superstizione senza limiti, ardente e passionale come sono gli africani". E da questa da più parti condivisa situazione sociale i Borboni si guardavano bene dall’affrancarlo: "festa, farina e forca," era il loro motto.
Non conta il PIL migliore del Nord (tutto da dimostrare) a fronte di una potenzialità di miglioramento sociale che ha la sua indissolubile base nella libertà e nella democrazia, che l’unità d’Italia, al di là di tutte le nefandezze che seguono sempre e comunque ogni guerra civile, ha saputo regalarci. La storia va avanti da sé, fatta da un coacervo di combinazioni che sortiscono effetti non sempre prevedibili. Studiarla serve a tutti, rimpiangerne i risvolti non ha senso.
Claudio Gliottone
Post Scriptum : per opportuna conoscenza fu proprio Ferdinando II nel 1856 , quindi molto prima di Menabrea (1868), a seguito di moti insorti a Cefalù ed a Palermo, con un tentativo (fallito) di regicidio, ad ipotizzare la stipula di una convenzione con l’Argentina per stabilire sul Rio de La Plata "una colonia di sudditi napoletani, già condannati e in attesa di giudizio per delitti politici" ma Palmerston si affrettò a dichiarare che non era una soluzione "perché le carceri napoletane, una volta svuotate, sarebbero state immediatamente riempite con nuove vittime della tirannia dei Borboni".