Non temete! Non voglio parlare della epidemia da coronavirus, diventata ormai argomento non del giorno, ma dell’ora. Non voglio parlarne cronachisticamente e tantomeno scientificamente: non ne sarei in grado. Ma ogni cosa che accade non può non suscitare riflessioni, connessioni, considerazioni personali, e non può non originare, nelle persone sagge, la determinazione di parlarne, perché è dalla conoscenza dell’uomo e del suo comportamento, inquadrato in una ampio discorso di storia, che si imparano tante cose. E condividerle diventa utile mezzo di trasmissione per accrescere quella conoscenza. Tra le piaghe che hanno tormentato l’umanità, fin dal suo nascere, l’influenza, a parte quella terribile detta “spagnola”, la cui aggressività era certamente legata alle condizioni di estrema povertà e disagio esistenti in una Europa che usciva distrutta dalla Grande Guerra, non è poi tra le peggiori. Prima in classifica è senz’altro la peste, epidemia che ha tormentato interi popoli nel corso di tutti i secoli, che tanto ha influenzato il percorso storico dell’umanità e che è stata descritta da grandi autori in tutti i tempi. Ed ognuno di loro ha narrato, oltre alle situazioni drammatiche dello svolgersi dell’evento, stati d’animo, paure, ipocrisie ed atteggiamenti dell’uomo di fronte al pericolo invisibile, ma gravissimo, di una malattia diffusiva. Cos’altro era il “feral morbo” che, nato per “l’ira funesta del pelide Achille” “infiniti addusse lutti agli Achei”, magistralmente descritto, a lievi pennellate, da Omero nel prologo dell’Iliade oltre quattromila anni fa? Quasi sicuramente la peste, che “molte anzi tempo travolse alme d’eroi, e di cani e d’augelli orrido pasto lor salme abbandonò!” Poche parole per descrivere forse la prima umana tragedia di cui si abbia notizia. Infinitamente più descrittivo è Lucrezio nel dedicare un libro del suo “De rerum naturae” alla terribile peste di Atene del 460 a.c., soffermandosi sulla scomparsa della “pietas” umana che, di necessità, aveva portato alla abolizione di ogni sepoltura. E lo fa con le sue convinzioni epicuree volte a liberare l’uomo dal timore della morte, che l’uomo non potrà mai conoscere perché quando arriva lei, lui non c’è più. Anche Virgilio descrive una peste bovina, sottolineando lo stesso comportamento delle genti, offuscate dalla paura in tutti i loro umani sentimenti. E poi Boccaccio, parlando, nel Decameron, della peste che colpì Firenze e gran parte dell’Europa nel 1328, sottolinea anch’egli il degrado morale, la dissoluzione di ogni forma di società o di rapporto civile, con la scomparsa di tutti i principi di affetto o di sangue, che la epidemia comporta. Lo stesso fa lo scrittore francese Camus nel suo romanzo “La Peste”, edito nel 1947; una narrazione che, nei fatti, mette sullo stesso piano l’atteggiamento di degrado umano di fronte a catastrofi naturali, come poteva essere la peste, e quello che nasce di fronte a catastrofi provocate dallo stesso uomo, come il nazismo e le sue inenarrabili atrocità. Un tema ricorrente quindi. Ma una simpatica originalità la troviamo ne “I Promessi Sposi” di Manzoni, che parla della peste del 1630. Con la stessa precisione e partecipazione descrittiva degli altri, ma, alla fine, con quel tocco di sagace ironia e di cristiano ottimismo che gli era proprio, si sofferma su un altro aspetto della natura umana, quello della presunzione figlia dell’ignoranza, che porta a convinzioni e ragionamenti che non stanno né in cielo né in terra. E crea il Personaggio di Don Ferrante. -“In rerum naturà,” diceva (Don ferrante n.d.r.), “non ci sono che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può essere né l’uno né l’atro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicché è inutile parlarne.” – E, andando avanti di questo passo, il buon Don ferrante “dimostra” che il contagio non è manco sostanza materiale, perché: non è aerea, altrimenti volerebbe nella sua sfera; non è acquea, perché bagnerebbe; non è ignea, perché brucerebbe; non è terrea, perché sarebbe visibile, fino alla conclusione che il contagio non esiste. Fino a che, conclude il Manzoni: “His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste: gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle.”.
Claudio Gliottone