Un bel frammento lapideo finemente scolpito dell’ambone che “Il Padre Pandulfo”, o forse il suo predecessore Guglielmo sui fulgidi binari dell’irripetibile primavera artistica dell’Abate Desiderio, “volle tra le cose di maggior pregio” nella sua cattedrale è adesso confinato in “castigo”nella cripta di S. Paride. In una cripta che vegliò amorosamente per secoli le venerabili reliquie del Santo Protettore di Teano e Diocesi e alla quale, invece di superflue e costose diversioni, andrebbe prodigato un maggiore interesse e una aggiornata ridefinizione.
Un allestimento alla buona, per i nostri tempi, fermamente voluto e fortunatamente risolto dalla determinazione mitica dell’ancor più mitico Mons. Sperandeo, improvvisato quasi senza mezzi e con grande impegno da un eterogeneo ma affiatato gruppo di amici. Qualche anno fa la cripta fu perfino depredata di alcuni suoi pezzi di maggior valore. Si provvide poi a sprangarla, ma, senza riguardo per i visitatori, ora versa in quasi delirante abbandono tra polvere, ragnatele e variegato sudiciume nella speranza di una provvidenziale valorizzazione che ne permetta una decente visita e un possibile studio di molti documenti scultorei ed epigrafici tuttora inediti , interessanti da un punto di vista estetico-formale e documentale. Nel frammento di Teano di ignoto, espressivo documento archeologico e teologico iconografico di ottimo livello, apposto di fronte a un prestigioso bassorilievo di epoca longobarda raffigurante uno stilizzato leone di maestosa eleganza plastica, del pesce adesso si può appena scorgere la pinna caudale ridotta a quattro strie segmentate. Ma di Giona per fortuna resta ancora il bel volto rappresentato in modi “barbarici”: dagli occhi obliqui e spiritati, l’esigua fronte accentuatamente aggrondata, il collo affusolato,la bocca appena contratta in una piega amara, il filiforme naso a punto esclamativo che definisce l’arcata delle distese sopracciglia, la barbetta ben curata , i capelli fluidi nelle onde vorticanti, talmente fluidi che le onde accavallantesi nella tumultuosa fissità della scena si fondono e si confondono con la folta capigliatura del nostro ardimentoso profeta in un voluttuoso amalgama di una perfetta sintesi compositiva. Il torace arditamente sbilenco del profeta sembra nella fin troppo spinta inventiva dell’artista medievale, con molta probabilità di formazione artistica longobarda, una variante di qualche misterioso segno druidico. Nel bassorilievo si può scorgere una forte tendenza a stilizzare la figura umana con un particolare risalto per le onde, al fine di inventarsi con raffinata sapienza creativa e tecnica superfici animate da intricati grovigli tempestosamente vibranti sotto la luce. In più si nota come la levigata, quasi trasparente figura del disubbidiente profeta appare risolta con delle contradditorie sproporzioni formali, una quasi studiata disarmonia plastica al fine di sottolinearne incisivamente il gesto funzionale, in altri termini le proiezioni natatorie del soggetto rappresentatovi.
Il racconto di Giona e la balena è condotto qui su un registro meno accademico e fastoso degli altri esemplari consimili ( si veda ,tra gli altri, il reperto lapideo del duomo di Sessa). Più lineare e schematizzato, con soffice sobrietà il Giona di Teano si adatta a un linguaggio artistico e a una configurazione stilistica di più essenziale lettura con tutto l’estenuante, diafano incanto della docile flessuosità delle onde incalzanti la fluviale chioma del profeta, che ne costituisce il motivo conduttore. Il trionfo della cosiddetta arte barbarica sulla classica compostezza della classicità espressa in formule plastiche e di puro decorativismo. Il mostro inghiottitore è anche uno dei modi simbolici che l’arte cristiana ha mutuato dall’arte classica, il cui riferimento più calzante è quello di Giasone nel momento più cruciale della ricerca del vello d’oro. Quello che però importa è che Giona non muore; non deve e non può perché pentito in extremis della proditoria diserzione.
Inconsueto è solo lo strumento dello scampo: la grande balena sul conto della quale il libro di Giona non è stato più esauriente. Quel pesce immenso nel cui interno trova perfezione l’itinerario redentivo di Giona al punto tale che Gesù lo usa come espressiva metafora della sua morte e resurrezione in uno dei numerosi incontri “in punta di piedi” con i suoi fedeli. Morte e resurrezione della quale il nostro eroe da recalcitrante profeta si trascende in puro simbolo e “ il segno di Giona “, il pesce ( ????? in greco, iniziali di Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore) dal cui grembo rigermoglia la vita diventerà uno dei primi simboli paleocristiani, diffusamente interpretato nell’arte catacombale e sui primi sarcofagi scolpiti.
Il libro di Giona: delicata, convincente narrazione che si materializzò limpidamente in Teano nella fluida, languida lastra della cripta di S. Paride per merito di un ignoto scultore dall’estro “barbarico” e si espresse simbolicamente in Palestina nella sublime enfatizzazione della Pasqua.
Giulio De Monaco