Erano le 19.34 quando gli aghi del sismografo impazzirono in quei 90 secondi di devastazione che spazzò via vite, borghi, strade, e parte della storia culturale. Un terremoto di magnitudo 6.9 che uccise 3.000 persone e devastò l’Irpinia, la Basilicata, la Campania, e una parte della provincia di Foggia, procurando danni enormi e quasi 300.000 sfollati. Secondo stime ufficiali furono danneggiati 362.000 edifici in 687 comuni. Dopo 40 anni possiamo affermare che è stato il terremoto più violento registrato in Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale; è stata una linea di demarcazione nella coscienza civica che ha modificato l’idea preesistente di comunità nazionale, gettando le basi per quella che poi è diventata la moderna Protezione civile, all’epoca si trovava all’inizio di un precorso legislativo decennale. All’epoca i sismografi non erano ancora collegati in un unico centro di raccolta dati e non esistevano nemmeno strutture nazionali per gestire emergenze di questa portata. Il grande terremoto dell’Irpinia provocò anche numerose polemiche per la lentezza sia nei soccorsi sia nella ricostruzione, a causa anche della scarsa reattività dei protocolli di emergenza. A peggiorare la situazione i danni agli edifici istituzionali e una serie di eventi collaterali, come alcune rivolte. La sistemazione delle centinaia di migliaia di sfollati fu molto complicata a causa dell’inverno molto rigido, per cui fin da subito ci fu un grande bisogno di migliaia di vagoni, container e prefabbricati, alcuni ancora abitati. Sta di fatto, che la ricostruzione dei luoghi distrutti e danneggiati non può dirsi nemmeno oggi conclusa, nonostante da allora, secondo le stime attualizzate, siano stati spesi oltre 60 miliardi di euro.
Sara Finocchi