La Corea del Sud è un paese democratico con 50 milioni di abitanti, era il paese più compìto dall’epidemia, prima di essere superato dall’Italia. Come mai? Perché in Italia, fatta eccezione del Veneto e di altre regioni come l’Emilia Romagna e le Marche, che hanno iniziato a seguire il “modello-Zaia” che si rifà al modello Corea, si ha difficoltà a fare i tamponi. O meglio, si fanno i tamponi solo ai casi gravi. Il contagio in Corea del Sud è arrivato quasi contemporaneamente all’Italia, ma è stato affrontato in modo diverso. Ecco perché è inevitabile un paragone tra i due paesi. Breve cronologia: in Italia il primo caso viene confermato il 30 gennaio, poco dopo vengono individuati in provincia di Lodi e Padova due grossi focolai. Era il 23 febbraio quando 11 comuni furono posti in quarantena. Da lì nuove misure di blocco vennero emesse fino all’11 marzo, quando l’intero paese diventa “zona rossa”, vietati spostamenti, e un lockdowngenerale. La Corea del Sud ha seguito una strada differente, giudicata dagli esperti “una strada virtuosa”. Dal primo momento il governo non applicó misure di quarantene, di chiusura totale, in altre parole: nessun divieto. Il governo ha messo in atto il cosiddetto “contact tracing” cioè l’identificazione ad una ad una delle persone infette e di metterle in quarantena, in questo modo si blocca il contagio dal nascere. Ha previsto dei “drive-in” posti di blocco per controllare la popolazione e a breve sono giunte delle cabine, le “safety”, che consentano al personale medico di visitare i pazienti in assoluta sicurezza: un citofono per parlare con i pazienti lunghi guanti di gomma incorporati nella struttura. La struttura viene disinfetta ogni 7 minuti. La Corea del Sud ha effettuato dei test di massa, effettuando ben oltre 300 mila tamponi, il numero più alto registrato. Ciò ha permetterà al governo democratico coreano di gestire, in modo impeccabile quest’epidemia che affligge il mondo.
Sara Finocchi