È davvero impressionante camminare per le strade delle città della Cina centrale e osservare il numero elevatissimo di negozi (monomarca) che si rifanno a nomi italiani, cercando di scimmiottare lo stile dei nostri prodotti (soprattutto per quanto riguarda il sistema del fashion). Non è quindi raro vedere accanto aiflagship store di Prada, Armani, Versace insegne dagli improbabili cognomi italiani — a noi del tutto sconosciute — che pure nell’ex impero di mezzo fanno esclusivamente leva sull’italianità per sviluppare il loro florido business. Molto più note, in materia di contraffazione, ci erano le spavalde e truffaldine azioni condotte da player stranieri nel mondo dell’agro-alimentare: Parmesan è ormai quasi un marchio anche in Italia, tanto grande è il successo ottenuto da questo (finto) formaggio italiano specialmente nelle Americhe. E sono in molti a praticare il cosiddetto Italian sounding se è vero che il fatturato realizzato da costoro ammonta, in valore, a più del doppio dell’export conseguito dalle imprese dello Stivale.
Il bicchiere
Vedendo il bicchiere mezzo vuoto, si tratta — in entrambi i casi — di comportamenti opportunistici, speculativi, che, proprio grazie a un millantato credito, hanno costruito la loro ragion d’essere e, in verità, spesso di prosperare. Ma se invece ci mettessimo nella prospettiva del bicchiere mezzo pieno, potremmo invece constatare che il cosiddetto Made in Italy è talmente apprezzato da essere considerato, ovunque, sinonimo di qualità, creatività e innovazione. Purtroppo le nostre imprese, a parte i soliti noti, stanno molto spesso a guardare; imprenditori e manager si appiattiscono su una dimensione di eccellenza produttiva, che è certo la loro originaria ragione d’essere di impresa e la fonte di un orgoglio da cui traggono quasi linfa vitale, ma che le porta a trascurare quasi del tutto la costruzione di piattaforme, altrettanto eccellenti, di relazione con il mercato finale.
Tant’è che i più importanti marchi del lusso, a livello mondiale (Chanel, Dior, Hermès, Louis Vuitton, Ralph Lauren, Tom Ford), fanno realizzare buona parte dei loro prodotti in Italia — perché siamo bravi — e incassano il vantaggio di una più attrezzata capacità di rispondere ad una domanda dai grandi numeri. Stiamo, in altre parole, correndo il rischio che il Made in Italy diventi un marchio a disposizione di altri (stranieri) con le imprese italiane a giocare la sola parte dei bravi (ma anche poco profittevoli) fornitori.
Strategie
Che cosa fare? Occorre che il nostro sistema industriale acquisisca una duplice consapevolezza. Da un lato, che arti e mestieri — di lavorazione della pelle, del tessuto ma anche dell’acciaio e di tanti altri materiali — sono soltanto nostri e rappresentano il frutto di secoli di esperienza ed esperimenti: nessuno ce li può rubare e/o imitare e su queste competenze occorre fare assolutamente leva. Per far che cosa? Per sviluppare, in secondo luogo, una narrativa, un racconto di queste formidabili modalità produttive che stanno alla base dei prodotti eccellenti da tutti apprezzati. Una narrativa che ovviamente deve essere scaricata a terra attraverso un’azione di marketing coerente; e a questo riguardo, lo sviluppo di una presenza digitale rappresenta la risposta più efficace: è alla portata di tutte le imprese ed è ormai una scelta che garantisce audience enormi. Insomma, anche imprese poco note, possono camminare — ma forse anche correre — nel mondo poggiando su due solide gambe: quella del pregiudizio positivo sul Made in Italy e quella del racconto delle nostre tradizioni produttive, che noi non apprezziamo adeguatamente perché ci sembrano quasi scontate, ci conviviamo da sempre, ma che gli altri ricercano disperatamente e apprezzano in misura molto significativa. Non si tratta, però, di un cambiamento facile; richiede,infatti, ai nostri imprenditori e/o manager di andare oltre la materialità, la competitività di prodotto e di puntare, invece, su asset intangibili, che per essere sviluppati richiedono investimenti che si traducono nelle costruzione di una marca, di una relazione virtuosa con il mercato finale, fonte di profittabilità lungo la catena di fornitura.
Fonte: corriere.it
di Giuliano Noci