Sì: quando la cultura classica incontra altre forme d’arte nascono connubi destinati a rimanere insuperati cardini del patrimonio umano per l’eternità: è il caso del Mosè o del David di Michelangelo, dell’Ultima cena di Leonardo, della Nascita di Venere del Botticelli o del Coro del Nabucco di Verdi e Solera, o dell’Inno alla Gioia di Schiller nel quarto movimento dell’ottava sinfonia di Beethoven.
Accade anche nella cosiddetta “musica leggera”, quando non è finalizzata al semplice divertimento ritmico con relativo incasso per una o al massimo due stagioni.
È accaduto per il passato con le canzoni napoletane di Libero Bovio, di Salvatore Di Giacomo, di Roberto Murolo, o con quelle dei “cantautori genovesi”, Lauzi, Paoli, Tenco e via dicendo.
Oggi il fenomeno va scemando, e resta forse solo, ineguagliabile, il geniale Roberto Vecchioni, professore di materie umanistiche e impareggiabile conoscitore di musica e ritmi.
E così non v’è suo brano che, oltre alla perfetta sintonia tra musica e parole, non contenga incredibili “pillole di saggezza” valide per tutti e pregne di vasto significato. Mi piacerebbe sottolinearne alcune.
In “Samarcanda” si narra incisivamente della ineluttabilità del destino che attende il guerriero che balla e beve tutta la notte festeggiando la vittoria sul nemico; poi all’improvviso gli pare di vedere “quella nera signora”, la morte, e, certo che cerchi lui, si fa dare un veloce cavalo col quale fugge verso Samarcanda. Ma era qui che “quella nera Signora” lo aspettava, come destinato, e non dove stava divertendosi due giorni prima, e si era meravigliata di vederlo così lontano da dove lei lo attendeva. Il cavaliere era inconsciamente corso incontro al suo prestabilito destino!
“Io non appartengo più, viaggio come un clandestino in una nave senza rotta, già segnata dal destino…” canta nell’omonima canzone dichiarando di non riconoscersi più nei tempi attuali: “sono sveglio dentro un sonno di totale indifferenza… io non appartengo al tempo del delirio digitale, del pensiero orizzontale, di democrazia totale…”. Un romantico rimpianto di altri tempi, sinteticamente motivato ed esposto.
Così, con palese ma composto dolore, nella canzone dedicata al figlio, morto a 36 anni di sclerosi multipla, si chiede come potrà più insegnargli “a guardare un quadro per ore ed ore… fino a sentire i battiti dentro al cuore!”. E lascia dolcemente a noi questo profondo insegnamento.
E solo per ragioni di spazio concludo con una ultima sua riflessione. Tratta dal brano “Imperdibili quegli anni” laddove, ricordando la sua giovinezza trascorsa nell’impegno sociale e professionale, trova e ci trasmette motivazioni di grande validità: “ed è proprio aver vissuto che ci fa vivere ancora… ed è proprio aver perduto che ci fa credere ancora”. E qui l’insegnamento è tutto racchiuso in quell’ausiliario “aver” e non “esser” vissuto, trasmettendoci il bello di una vita “partecipata e partecipativa” che proprio per questa dedizione ci spinge a “vivere ancora”: non per noi, ma per gli altri! Così come è proprio “l’aver perduto che ci fa credere ancora” rinsaldandoci nelle nostre idee, non tradendole, ma ampliandole e ribadendole con forza maggiore.
Trovereste mai, oggi, simili argomentazioni di vita così incisive in canzoni di altri autori?
Claudio Gliottone