Per poter vedere la bellezza del mondo bisogna attivare il pensiero, che sta al sapere come il cibo sta allo stomaco. Senza una profonda curiosità, tanto umanistica quanto scientifica, non è possibile riuscire a cogliere né la forma né il contenuto di tutto ciò che fa mondo. Il registro del linguaggio della filosofia è un parlato aulico, usa la parola nel rispetto della sua vera identità, per quello che è possibile, perché mai la parola potrà dire la cosa come la cosa vuole essere detta. Lo stesso fa il linguaggio matematico che, figlio di pura fantasia – non esiste il numero in natura, né un cerchio perfetto-è anch’esso una lingua tanto aulica quanto umanistica, contrariamente a come potrebbe sembrare; per non parlare della magica bellezza di tante delle sue formule ,una su tutte del PI greco ,che permea la nostra esistenza ben oltre i problemi della geometria : le corde di una chitarra che vibrano, un profumo che si espande nell’aria ma anche cose meno bucoliche come la diffusione di un virus influenzale o la costruzione di ponti , dipendono da questa sigla misteriosa che affonda le sue radici nell’alba dei tempi, per avere poi un’approssimazione più precisa grazie al genio di Archimede da Siracusa . Le stesse catene di Markov -di cui tutti siamo sicuri di non aver mai sentito parlare- e di essere sicuramente estranei al loro uso, sono in realtà sistemi matematici di cui è piena la vita di tutti noi. Un sistema markoviano è determinato dal suo passato: si basa su ciò che si sa per prevedere ciò che accadrà. Le stesse parole sono catene di Markov: sappiamo che per esempio dopo la GL c’è quasi sempre una I. Solitamente accade quanto previsto, ma qualche volta non è così, in tal caso c’è l’imprevisto e quindi l’emozione, l’inaspettato, che esiste dunque nella matematica alla stessa stregua della poesia, anch’essa incarnazione sensibile di un contenuto ideale. Nella poesia la parola non è più un sistema markoviano, ma diventa il trait d’union tra pensiero e sentimento. Sono la scienza e la poesia a poterci spiegare il mondo? Ciò che sembra essere un dualismo è invece intercambiabilità? Se l’uomo è l’originario è esso stesso la manifestazione della verità, non c’è una verità al di fuori dell’uomo. L’incoronante di ogni sapienza è la coscienza che è dunque ciò che trascende la vita stessa dell’uomo che in quest’ottica è molto di più della vita che finisce con la sua morte. La scienza ancora non è in grado di dirci cos’è la coscienza; ancora non sa cosa sia l’sapienza è, il qui, tutto ciò che non è oggettivabile è fuori dalla sua portata. La scienza può molto, ma da sola non basta, per indagare l’io deve allargare i suoi metodi. Come faccio a descrivere la mente se è essa stessa l’atto da descrivere? È l’ego stesso la rappresentazione del mondo, come fai a vedere la coscienza? È essa stessa il presupposto del suo mostrarsi. Interrogarsi sulla coscienza è già un atto di coscienza: siamo nell’occhio del ciclone, è un tipo di problema che può essere solo abitato, forse mai risolto. Il progetto di conoscenza, di qualsiasi forma di conoscenza, se si stacca dalla coscienza si esilia, è questo a rendere la scienza autoreferenziale, c’è necessità dell’interdisciplinarietà perché le scienze hanno tutte un oggetto di studio, mentre la coscienza non è oggettivabile. Lo scienziato quando entra nel laboratorio dovrebbe ricordare di essere anche un uomo tra gli uomini, anche se è difficile lasciare la propria comfort zone. Ci sono dei buchi enormi nel nostro sapere, soprattutto su ciò che siamo noi stessi o di quello che crediamo di essere; non possiamo non cercare altrove, non possiamo non sentire il bisogno di trovare altre vie. Forse ha ragione Wittgenstein a dire che non giungeremo mai a una risposta, ma sarà proprio quell’indagare che cambia la vita in meglio? È quella curiosità di sapere che può renderci migliori? Che sia la poesia, la matematica, o qualsiasi altra cosa, può funzionare solo se ci siamo noi lì e non solo con la nostra logica ma con tutta la verità del nostro essere e quindi con la nostra coscienza. Col positivismo, la scienza oggettiva era sembrata la chiave di tutti i segreti del mondo, ma poi ha mostrato tutti i suoi limiti, non avremmo dovuto trattare con paternalismo qualcosa che doveva servire all’uomo e non servirsi dell’uomo, spostando quel nesso di causa effetto stravolgendone il significato vero. La stessa meccanica quantistica, che resta un mistero ai più, nonostante governi la nostra vita, dice che per principio la scienza non potrà mai darci certe risposte: il pensiero fisico oggettivante è limitato perché finito, non potrà mai spiegare tutto il mistero della vita. Ci sono esperienze che nell’ordinario non riusciranno mai a trovare posto. La meccanica quantistica non dice nulla di ciò che non prevede, non ha l’ambizione di svelare il mondo per com’è. La nostra coscienza è molto più ambiziosa della scienza, è sempre alla ricerca di una conoscenza partecipativa, intima. La fisica quantistica ci dice che il sistema con cui indaghiamo cambia il risultato quindi siamo sempre noi a fare la differenza, non si esce da noi stessi, è sempre la nostra esperienza che fa da nucleo. Il problema della coscienza non viene dall’insufficienza della scienza, perché la coscienza non è un oggetto a parte; la scienza sa che i suoi oggetti di studio sono esterni ad essa, ma la coscienza non è un oggetto, essa è DATA in me. Il problema della vita non si può separare da noi, perché siamo noi stessi il problema. C’è identità tra noi e il problema coscienza. Si afferma, senza che questo faccia problema, che l’uomo abbia scoperto il Big Bang, ma quando c’era il Big Bang l’uomo non c’era. Come può un oggetto di conoscenza essere fuori da chi la partecipa? Si risponde che l’uomo vi partecipa con la conoscenza, ma non nella realtà. Daccapo quel Big Bang che conosco partecipa di me ma mi dice che nulla di esso è me. Allora la conoscenza non è riducibile alla realtà? Mi appare il Big Bang ma nel Big Bang non appaio io? Nel Big Bang non si fa esperienza di me? Forse che l’esperienza di me non combacia con me? Forse l’esperienza oltrepassa me che la esprimo? O forse ciò che si esprime nell’esperienza non è la stessa esperienza? O magari io sono qualcosa che oltrepassa l’esperienza stessa? Se non siamo identici all’esperienza che esprimiamo qualche domanda dobbiamo pur porcela e la fisica quantistica fa bene a non avere la pretesa di voler spiegare l’evento ma solo la sua probabilità. Certo anche in essa c’è tanta poesia, tanto stupore-i fisici dicono che chi non ne resta sbalordito è perché non l’ha capita-. La formula del padre dei quanti Paul Dirac, che dice di odiare la poesia perché non la capisce, risulta essere agli stessi fisici uno dei momenti più alti della poetica scientifica. La sua equazione incontra i sentimenti umani -è infatti chiamata la formula dell’amore -. È una formula compatta che comprende un numero infinito di fenomeni, spiega il comportamento del mondo in scala, da quella subatomica in su. È scritta sulla sua tomba a Cambridge, accanto a quella di Newton. La poesia fa lo stesso:” mi illumino d’immenso” è un enunciato di rara bellezza che meraviglia l’animo del sentimentale non meno di quanto faccia la formula di Dirac per gli amanti della fisica. L’uguale nella formula è l’analogia nella poesia: così come non abbiamo mai visto qualcuno illuminarsi d’immenso allo stesso modo Dirac non ha mai incontrato una particella subatomica. E così come in letteratura i sentimenti non cambiano mai- sono sempre gli stessi dall’Iliade a Giulietta e Romeo-in fisica i comportamenti del mondo sono sempre gli stessi -fino a prova contraria un sasso cadrà sempre verso il basso. Anche quando la scienza non ci dice il perché. La fisica nasce insieme all’uomo-abbiamo fatto un salto quantico quando abbiamo detto leone invece di indicarlo col dito- e la matematica le è indispensabile essendo il prima e il dopo, essendo tempo. La conoscenza aveva pieno diritto a voler essere l’unica vera necessità dell’uomo, Socrate pensa che sia l’unica forma di bellezza e Socrate non è un filosofo, Socrate è la filosofia. L’unico male per il mondo di matrice socratica è il “non sapere “. Se oggi si è imposto l’uomo corrotto è perché abbiamo creduto che potessimo delegare il sapere a qualcun altro, senza sforzarci a realizzare una coscienza critica necessaria al saper vivere, perché il valore della civiltà non dipende mai dalle leggi che la società impone, ma dall’educazione di ognuno di noi a quel nascosto che pur appare in qualche modo, perché ridurre la mente al cervello è arbitrario : il cervello è un luogo finito che appare come tale alla nostra coscienza ; è quindi il contenuto della coscienza e non ciò che vorrebbe contenerla. Il primato della coscienza è la coscienza stessa. È il fondamento di cui l’uomo (ciò che l’uomo crede di essere nel definirsi comunemente uomo) è il contenuto. Se la coscienza coincide col cervello, cosa certa per gli scienziati riduzionisti, l’intelligenza artificiale- IA -, ci supererà. Se si rifiuta la posizione riduzionista, per cui la mente non coincide col cervello, allora la IA non potrà mai sostituire l’uomo. Non credo che l’uomo voglia abdicare, l’uomo é coscienza e insieme suo contenuto, quella disgiunzione è impossibile. Facciamo in modo che l’uomo corrotto non faccia mondo e che quell’epiteto che sembra significare al contempo abile, furbo, di successo, possa essere smentito da un’umanità che ha ancora voglia di essere felice, sforzandosi di recuperare l’aspetto gratificante dell’onestà, ritornando all’unico gesto veramente eversivo in una società che ha perso il senso del limite: la gentilezza. Chissà, magari è leggendo poesie, amando la matematica, emozionandoci per una formula di fisica quantistica o innamorandoci dei sistemi filosofici, che possiamo fare veramente del mondo un posto migliore, dove la poetica dell’Iliade incontra la bellezza altrettanto mistica del bosone di Higgs, che fa esistere la materia proprio come la coscienza fa esistere noi. Essere umani significa anche buttarsi nelle cause perse- la IA non lo farebbe mai – don Chisciotte ci piace così tanto perché è la versione migliore di noi.
ANNA FERRARO
“Che gli altri si vantino pure delle pagine che hanno scritto, io mi vanto per quelle che ho letto. Le mie notti sono piene di Virgilio e non importa se poi dimentico le parole, anche l’oblio è una forma di sapere: quando abbiamo creato il fiume delle nostre conoscenze non importa se perdiamo l’acqua che scorre in esso, altra acqua potrà servirsi del suo letto” CIT: Jorge Luis Borges.