Gli intellettuali del nostro tempo, perlomeno quelli riconosciuti dalla classe dominante, non amano Papa Francesco, lo accusano di essere poco più di un pastore di campagna che va riducendo la Chiesa a parrocchia globale. Senza alta teologia la Chiesa non si trascende più. Del resto Dio è famoso anche perché nessuno lo ha mai visto. Con Francesco ogni cielo scende in terra, è troppo vicino al popolo, vive a S.Marta, toglie sacralità a quel divino che l’uomo ha amato quanto temuto. Non a caso il popolo ama questo Papa, per la sua semplicità, per essere un uomo tra gli uomini, proprio per quel suo porsi come un pastore di campagna, anche soltanto l’immagine bucolica vale più di un’enciclica teologica. Non sarà un grande teologo, ce ne faremo una ragione, le rivoluzioni più belle vengono sempre dal basso, se non hanno un carattere religioso ma soltanto politico svaniscono senza lasciare traccia. La mondanità spirituale, dice Francesco, è il peggio della Chiesa, è ciò che ci fa essere anticlericali, è una perversione della Chiesa, nasconde putretudine. È l’ideologia che prende il posto del vangelo: senza la carne di Cristo non c’è Chiesa possibile per Francesco. È il Papa degli ultimi, delle minoranze, dei profughi, degli immigrati, degli omosessuali e dei bambini. Per Francesco il dolore dei bambini è lo scandalo della Chiesa, perché nulla può giustificarne la sofferenza. I bambini, con i loro mille perché, non chiedono vere risposte, la vera richiesta in quel domandare è rivolta al nostro sguardo su di loro; il vero bisogno di un bambino è sentire la protezione del nostro sguardo vegliare su di loro. Questa premessa era indispensabile per riuscire a dire dell’episodio di bullismo ma anche di violenza che ha sconvolto la nostra comunità, già molto provata da troppi problemi sociali. Sono sintomi di una malattia molto radicata che fa implodere il senso di rabbia nell’individuo visto che non esiste più socializzazione. I nostri figli sono il “prezioso” delle nostre esistenze, vale anche per chi non ne ha, perché se esiste una cifra umana che ci accomuna tutti è proprio la figura del figlio. Possiamo non essere padri, madri, fratelli, cugini, nonni, ma non possiamo non essere figli. Tutti veniamo al mondo come figli, e tutti siamo interessati a questo cammino per poter ereditare ciò che è già nostro da sempre. I figli sono il senso del tempo, dello spazio, sono l’ossigeno dell’aria, sono la vita nel senso stretto del termine, non è pensabile che ci sia chi volutamente e per il piacere gratuito di una sfida, possa far loro del male. È distopico, incestuoso, esecrabile, aberrante, indicibile, nessuna parola riesce a dirlo. I ragazzi stanno male, i sociologi lo ripetono come un mantra. Ogni anno in Italia sono 400 i suicidi in età scolare. Eppure, siamo il paese del sole, del mare, siamo un popolo che parla molto, cosa succede ai nostri figli? Perché sono sempre di più a sentire l’esigenza di mostrare una forza fisica nei confronti dei più miti, certi di affermare così la loro supremazia? Senza rendersi conto che dichiarano in realtà un disagio privato ma anche sociale (la psicologia è sempre sociale) che viene espresso a livello pulsionale perché spesso difettano di quelle mappe cognitive ed emotive (che per le neuroscienze si formano durante i primi sei anni di vita) indispensabili per gestire la vita umana. Se le pulsioni e le emozioni che abbiamo per natura non vengono tradotte in sentimenti, la vita resta allo stadio pulsionale. Questo è il bullismo, è un fare dettato dalle nostre pulsioni che non si sono emancipate. I sentimenti si imparano, non ce li abbiamo perché competono all’ente uomo per natura. È la letteratura a insegnarli, la poesia, i grandi poemi classici. La scuola non può pensare di sostituire tutto questo con le competenze, formiamo prima gli uomini, poi anche dei bravi tecnici, come si fa a non vedere l’indispensabile propedeuticità. I ragazzi non sapranno più cosa farsene della bellezza, della giustizia, non avranno neanche più risonanza emotiva per poterle cogliere. La famiglia ha un ruolo fondamentale in tutto questo, da svolgere in modo sinergico con quello scolastico. Ma come la scuola anche la famiglia è disarmata, i paradigmi del moderno costringono l’una a rincorrere una formazione tecnica, obsoleta già da subito, (vista la corsa inaudita del mercato) e la seconda a restare depauperizzata degli strumenti necessari a tirare su figli felici. Quante volte sentiamo dire “il tempo è denaro”, noi siamo forza lavoro venduta sul mercato come tutte le altre merci, siamo capitale umano. Siamo in una centrifuga necessaria a comprare cose che neanche servono più a soddisfare i nostri bisogni, che non sono più neanche nostri perché indotti da una macchina del desiderio volta ad un cattivo infinito. C’è un solo imperativo categorico CONSUMARE, la nostra felicità non è prevista perché chi è felice non consuma. In nome di un TUTTO di facciata, abbiamo tolto ai nostri figli la cosa di cui più necessitavano: il tempo. Il tempo per ascoltarli, per metterli in castigo. Il tempo per sostenere le loro ragioni e soprattutto criticare i loro errori, perché è in questo che sembra fallire la nuova categoria genitoriale. Ai figli va dato il tempo prezioso della caduta, del fallimento, sono tappe normali di una vita sana, che invece oggi esige solo perfezione. Il desiderio, anche quello necessario per la vita (perché all’uomo non basta vivere, l’uomo deve voler vivere) è una figura della mancanza, se non abbiamo mancanza noi non possiamo desiderare, dargli quel TUTTO di cui tanto ci vantiamo, vuol dire togliere loro il desiderio che accende la vita, facendone un percorso generativo, una vita viva. Una comunità che aspira ad essere perlomeno civile non può che farsi carico di questi drammi sociali, che toccano tutti da vicino; episodi di questo tipo ci dicono che tutti abbiamo fallito, che non ci sono innocenti, anche chi pensa di avere la coscienza salva perché non senza sacrifici ha messo su una famiglia di cui andare fiero, non può pensare di vivere su un’isola felice. L’egoismo diffuso è miseria generalizzata. L’uomo è relazione, Socrate quando condannato dai tiranni decide di non scappare, lo fa perché si sente parte della polis, anello di una catena, la comunità viene prima della sua vita. Lo dimostrerà bevendo la cicuta, in nome della giustizia sociale. Non basta solidarizzare con la vittima: siamo tutti noi quella vittima, e non solo potenzialmente ma fattivamente, è solo un caso che lì si trovasse quel ragazzo e non un altro. I giovani si sentono traditi da noi adulti, facciamogli sentire che si sbagliano e che siamo ancora in grado di proteggerli, anche da loro stessi. In una realtà difficile come la nostra, solo la bellezza e la dignità ci possono salvare, ancora di più se passano dalla cifra più alta dell’umanità: la giustizia (eterna fuggiasca). Per Aristotele giustizia è volere il bene dell’altro, credo che dopo 2500 anni, nessuno ne sia riuscito a dare un’idea più bella della sua.
Non si spegne il fuoco con il fuoco, non si asciuga l’acqua con l’acqua, non si combatte il male con il male. Cit. LEV TOLTSTOJ
Anna Ferraro
Il fruttuoso scambio di idee in questa coraggiosa officina, è riuscito ad essere il crocevia di diverse generazioni che mai potrebbero condividere le stesse visioni del mondo, fosse solo per un fatto meramente fisiologico. Parlare tra chi la pensa allo stesso modo è un po’ come dialogare tra sordi. Lo spirito si accende nel contrasto: Eraclito dice che polemos (guerra, ma in greco è maschile) è il padre di tutte le cose. Credo che Claudio Gliottone abbia usato i termini individualismo e relativismo con tutta la consapevolezza del caso, quindi anche con spirito provocatorio, come compete alle menti accese. Nietzsche dice che non ci sono fatti ma solo interpretazioni, se ha ragione il relativismo è l’unica verità possibile, ma Nietzsche fa filosofia col martello e col coltello, distruggendo la verità come la malattia da cui uscire. Se ha ragione neanche il suo pensiero merita allora di essere vero; se la verità non ha diritto di asilo neanche lui può più servirsene. Dell’individualismo posso condividere la versione di Kierkegaard che guarda al singolo più che all’individuo, perché in quanto tale è colui che può rispondere massimamente all’assolutamente altro (e quindi a DIO). Il relativismo è solo uno spauracchio, anche la Chiesa non lo teme più, anche se ha accompagnato il laicismo, verso un involgarimento delle masse che hanno smesso di cercare DIO, perdendosi in un pressappochismo che toglie senza nulla aggiungere alla ricerca di noi stessi. Solo l’uomo stupido non cerca Dio, che non deve essere per forza quello del cristianesimo, ma quanto meno la ricerca del fondamento, dell’Eskatos, del fine ultimo. Credo sia ciò che ci emancipi più di tutto, al rango di umanità. Il relativismo è figlio di una filosofia analitica che da sempre si contrappone a quella continentale, restando epigonale. La filosofia greca, che resta una tautologia, perché la vera filosofia è solo quella greca, educa alla radicalità, certo meglio il dubbio che una certezza mal riposta, ma il pragmatismo spinto può diventare cattivo buon senso. Il mito dell’individualismo moderno nasce con Robinson Crusoe che intrattiene con venerdì rapporti esclusivamente mercatistici. Solo tornando a Londra coglierà tutta la solitudine tra una folla ridotta ad atomi lobotomizzati. Viva Don Chisciotte, viva la sua utopia, viva il suo non servire a niente, pare che con l’utile si possano fare tante cose, ma tutte piccole, mentre con il tanto vituperano inutile, noi amiamo, soffriamo, gioiamo, creiamo, queste sono le cose che implicano anche una sofferenza psichica, ma la perla è la malattia della conchiglia. La civiltà non è nata quando abbiamo imparato a leggere, si è voluto vedere il suo esordio nel ritrovamento di un uomo di Neanderthal morto di vecchiaia nonostante avesse il femore rotto, quindi accudito dalla sua comunità. Questa è la civiltà, quel grido che tutti noi siamo quando veniamo al mondo si umanizza con la risposta dell’altro, la vita umana esige senso, e l’unico possibile mai potremmo darcelo da soli .
Sul Contratto Sociale di Rousseau si discute ancora oggi, resta una delle pagine più belle del vivere democratico. Visto però gli argomenti trattati, la cosa più pertinente che vi si possa trovare è l’idea di Rousseau sull’individualismo che per il grande illuminista è di matrice cristiana. È stato il cristianesimo a dirci che ognuno di noi si salva con la propria anima, nella sua individualità. Per Rousseau un cristiano non potrà mai essere un buon cittadino, lo potrà essere di fatto ma non di diritto. La radicalità è una necessità per l’uomo che cerca il vero senso delle cose, anche se i problemi che elabora la filosofia sono sempre più grandi delle soluzioni possibili. Credo nel comunitarismo, ad oggi la proposta più persuasiva di felicità resta quella di Marx: di una comunità socializzata di persone libere uguali e sodali. Marx non è il marxismo, l ‘ideologia non è mai all’altezza del vero, dogmatizza un pensiero facendogli perdere la parte migliore, il vero speculativo. Marx meritava una traduzione diversa dalle ermeneutiche utilitaristiche che ne sono state fatte. Era lui Stesso a dire “tutto quello che so è di non essere marxista.”
Caro Direttore, visto che hai citato Leopardi, che dici crogiolarsi nella serenità che può nascere solo dall’abbandono al senso dell’oblio, volevo dare la mia versione, che non è mia perché pensata da me, io faccio solo da eco al grande Emanuele Severino, senza di cui la filosofia italiana del nostro secolo, sarebbe poca cosa. Leopardi per Severino, insieme a Nietzsche e Gentile costituisce il sottosuolo del pensiero filosofico del nostro tempo. A scuola ci hanno parlato del suo pessimismo, ma Leopardi non è ingenuo, non farebbe mai del suo grande pensiero un banale relativismo. Leopardi è massimamente radicale, è la potenza estrema del negativo. Lo Zibaldone non è un ingorgo sentimentale, come lo definisce Gentile, sono in realtà 4000 pagine di alta filosofia. Il genio, lo speculativo del suo pensiero poetante sono molto più alti del suo nichilismo. Siamo una sporgenza tra due nulla, solo la poesia può allietare l’anima dell’uomo, non certo la verità, unico movente concreto del nichilismo. Lo stesso Dante non canta per lodare Dio, ma loda Dio per cantare.
I Teanesi? Qualche problema dobbiamo pure averlo se abbiamo pensato che bastava coltivare il proprio giardino per fare bella la città. Per l’idealismo nulla può essere posto in essere senza la prassi dell’uomo, non c’è oggetto senza soggetto. Cominciano Fichte e Shelling, ma l’hegelismo è proprio questo, ricorda che l’oggetto è sempre il frutto di una nostra prassi. Tanti hanno visto in Hegel un conservatore, è forse il filosofo che ha suscitato più idiosincrasie di tutti, perché un grande pensiero non è mai una cosa sola resta sempre aporetico. Con lui tutto diventa dialettico. Non c’è positivo senza negativo, non c’è tesi senza antitesi, non c’è finito senza infinito, non c’è l’uno senza l’altro. Siamo relazione, veniamo dal due (siamo concepiti da un altro essere), il sistema capitalistico ci vuole monadi lobotomizzati. Va assolutamente riscoperto il senso della comunità, possiamo essere liberi solo se lo siamo tutti, possiamo salvarci solo se ci salviamo tutti.
Anna Ferraro