Qualche anno fa, la Lega Nord cominciò a parlare di secessione delle regioni settentrionali. Molti la presero sul serio, e quello slogan le diede notorietà, voti e potere. Non tanto quanto si aspettavano i leghisti, perché la possibilità di liberarsi della palla al piede costituita dal Sud doveva essere l’arma letale. Però di quella stagione è rimasto un clima di insofferenza, confortato da pregiudizi e pessima informazione, nei confronti delle zone "meno sviluppate" del Paese. Tra le voci che si levarono contro quello slogan ci furono le associazioni imprenditoriali settentrionali.
Nel gennaio 2011 Paolo Savona, cattedratico della LUISS ed ex ministro della Repubblica, con un articolo sulla rivista Formiche, dimostrò perché chi conta veramente nel settentrione fosse così contrario ad un programma del genere. Il Sud rappresenta il maggiore mercato per le imprese del norde, tutte le imprese, da quelle delle costruzioni a quelle alimentari alle banche ecc., un mercato facile facile al quale non si può assolutamente rinunciare. E questa è stata a suo tempo la principale molla dell’occupazione del Sud: il famoso "grido di dolore" che fece drizzare le orecchie a Vittorio Emanuele e che tutti abbiamo ascoltato fin dalle elementari, non proveniva da tante parti d’Italia ma dalle casse e dagli imprenditori del suo regno; analogo grido di dolore avremmo udito se quel programma leghista avesse avuto una parvenza di sbocco favorevole. Non solo, ma è considerata fondamentale la continuazione della situazione attuale (assenza di infrastrutture, costo elevato del denaro e dell’energia, depauperamento dell’università, ecc.) perché una parte d’Italia possa continuare a prosperare a spese dell’altra.
La tesi del prof. Savona è molto lineare, cerco di riassumerla in termini brevi. Il divario tra le due parti non è stato mai volutamente corretto perché sono stati realizzati sempre interventi compensativi e non correttivi, riducendo continuamente gli investimenti in infrastrutture, ampliando quelli a basso valore aggiunto (le "cattedrali nel deserto" fortemente inquinanti e che hanno devastato il territorio) e destinando una quota rilevante di risorse alla fiscalizzazione degli oneri sociali degli "investitori", naturalmente imprese del norde. La politica cosiddetta di "solidarietà nazionale" porta un trasferimento, calcolato da Savona, di 45 mld annui dal centro-nord al Sud, a fronte del quale vengono effettuate esportazioni, da quell’area a questa, di 62 mld. Tali esportazioni rappresentano la principale ricchezza per quelle regioni: ad esempio per la Lombardia nel periodo 1995-2005 hanno raggiunto il 53,7% del PIL annuale. "Su questi dati si assiste a una vera congiura del silenzio", si rammarica Savona.
Questa tesi è, naturalmente, sostenuta da altri studiosi. Tra gli altri, Carlo Trigilia, cattedratico a Firenze ed anch’egli ex ministro. In un breve testo, Non c’è nord senza sud. Perché la crescita dell’Italia si decide nel mezzogiorno, il professore sintetizza tutta una serie di calcoli e considerazioni in questa frase: «Un ruolo del sud piuttosto marginale dal punto di vista produttivo, ma rilevante per la domanda di beni di consumo prodotti dalle imprese del centro-nord». La Banca d’Italia stima che le aziende del centro-nord globalizzate in grado di fare a meno del mercato del Sud, sono un’esigua minoranza: 180mila su 4,5milioni attive.
Questa è la situazione oggi. Si tratta di una politica coloniale che viene portata avanti con lucida determinazione da 150 anni, dalla conquista del Sud, ottenuta nel sangue e nel disprezzo, persistente ancora oggi, del popolo sconfitto. Lo stato delle cose è andato man mano aggravandosi. L’economia non è tutto, tuttavia il differenziale del PIL è andato man mano aumentando, ed oggi supera il 50%. Ma la dicotomia di due società differenti è evidente in tanti aspetti, dalla vita sociale alle scuole, perfino alle attività sportive. In Europa ci sono altri stati che storicamente hanno inglobato aree in condizioni economiche e sociali differenti, in ultimo la Germania, ma in nessuno persiste una condizione duale così distante e così a lungo. Né ci sono avvisaglie che indichino un’inversione di tendenza, basti vedere gli atti dei governi degli ultimi vent’anni, compreso l’attuale. L’Italia è uno stato, ma non è mai stata una nazione.
E’ una situazione senza sbocchi evidenti. Secondo Savona, la rottura di questo stallo potrebbe avvenire solo col tracollo dell’euro e quindi dell’Europa, cose che farebbero emergere in maniera dirompente gli egoismi nazionali e quindi delle due nazioni che compongono l’Italia, portandole alla separazione.
Ovviamente non sono all’altezza di poter dire se previsioni del genere sono realizzabili, però credo che una cosa la possiamo fare: se incominciassimo ad acquistare prodotti made in Sud di aziende delle nostre parti, comunque daremmo un’avvisaglia che lo status quo può cambiare, diminuendo quel differenziale che oggi pesa tanto.
Gino Gelsomino