Da piccolo oltre alle avventure di Paperino & i 3 Nipotini con
Paperone, Paperina, Gastone, Nonna Papera, Ciccio, Clarabella e quel
saputone di Pico de’Paperis leggevo “Tiramolla”: un fumetto scalcinato
e disarticolato che a dire il vero non mi attizzava granché.
C’era solo un ometto con gli occhiali dalla spessa montatura
all’Andreotti, bombetta, ombrello e abito rigorosamente scuro e
stazzonato che m’incuriosiva e a volte mi divertiva con quella sua
aria seriosa e leggermente snob. Sembrava l’onorevole Fanfani privo
dei baffetti alla Hitler e di accademica sufficienza. Il divertente
dell’omino consisteva nel fatto che era un fior di menagramo aliàs uno
sgargiante iettatore e ci si può immaginare cosa poteva accadere a chi
aveva la simpatica sorte di imbattervisi.
Il disegnatore lo aveva battezzato Giona ma non aveva proprio niente a
che vedere né col Giona biblico né tanto meno con la compagna balena
che lo aveva allegramente inghiottito per un non tanto imperscrutabile
disegno divino.
Il Giona dell’Antico Testamento lo incontrai quasi per caso a scuola
di Catechismo una sonnolenta sera di aprile quando le rondini
sorvolavano eleganti e discrete la monumentale chiesa di S. Francesco.
Ce ne parlava soporiferamente una stagionata signorina che sembrava
una miss inglese capitata nella terra felice dei Sidicini per
intervento di umoristiche fate.
Il Giona veterotestamentario, in effetti, anche lui era un personaggio
sui generis, che fece l’esatto contrario di quello che come profeta,
seppur minore, avrebbe dovuto fare.
Invece di ascoltare la voce di Dio che gli ingiungeva perentoriamente
di convertire i dissoluti e disobbedienti abitanti di Ninive Giona che
evidentemente non era un cuor di leone preferì battersela a gambe
levate a bordo di una nave mercenaria diretta a Tarsis (forse nella
perduta terra di Atlantide), oltre i confini dell’estremo Occidente,
ma nel corso della traversata un violento fortunale angosciò i
naviganti.
Giona finalmente capì l’antifona e, ritrovato animo e coraggio,
propose ai marinai di scaraventarlo in mare.
Non se lo fecero ripetere due volte precipitando veloci il malcapitato
profeta nei flutti turbolenti. Il mare come per incanto si placò e i
marinai pagani offrirono sacrifici e voti al Signore degli Ebrei
rivolgendo un pensiero di gratitudine anche al povero Giona che ci
aveva rimesso le penne in cambio della loro salvezza.
L’uomo di Dio non perì, un pesce, un grande pesce si limitò a
inghiottirlo e a risputarlo compiendo in tal modo ciò che il divino
volere aveva stabilito per il disobbediente vate.
Il vero protagonista della parabola in effetti cos’era? Una balena, un
cetaceo, un capodoglio, un pistrice, leggendario mostro marino
ravvisabile nelle mappe nautiche dai Greci fino al Rinascimento
simbolo allegorico della paura dell’ignoto, o più semplicemente un
grosso tonno?
Questi interrogativi non trovano risposte, o meglio le trovano tutte
nella geniale e fresca inventiva degli artisti che rappresentarono
Giona e il suo pesce in tutte le maniere più inconsuete e più curiose,
in miriadi di svariati paralleli iconografici. La storia di Giona,
profeta controvoglia, è stata inoltre fonte ispiratoria di favole e
terrori in tutti i tempi e presso tutte le culture marinare della
Terra, basta fare riferimento al nostrano Pinocchio, alla più
terrorizzante balena bianca di stevensoniana memoria, ad Astolfo che
oltre a recuperare sulla luna il senno del forsennato Orlando si
lascia simpaticamente ingollare da una balena o infine al
simpaticissimo mitomane barone di Münchausen che della sua avventura
immaginaria fa oggetto di mistificanti, ridanciane fandonie.
E’ perfino menzionato dal Corano nella Sura di Giona (Sura X vs. 98)
col nome di Yūnus o anche Dhūl-nun l’uomo della balena.
Un bel frammento in marmo finemente scolpito dell’ambone che “Il Padre
Pandulfo”, o forse il suo predecessore Guglielmo sui variopinti binari
dell’irripetibile primavera artistica desideriana, “volle tra le cose
di maggior pregio” nella sua coloratissima cattedrale è adesso
confinato in sordina in una delle piccole sale della cripta di S.
Paride. In una cripta che vegliò amorevolmente per secoli e secoli le
venerabili spoglie del Santo Patrono di Teano e dell’intera Diocesi e
alla quale, invece di superflue quanto dispendiose dispersioni,
andrebbe necessariamente riservato qualche veridico interesse in più,
e dal punto di vista della preservazione manutentiva e da quello della
riattualizzazione in chiave espositiva. Una cripta decisamente
richiesta e felicemente risolta dalla determinazione mitica dell’ancor
più mitico Mons. Sperandeo, allestita quasi senza mezzi e con grandi
sacrifici da un eterogeneo ma consistente branco di “disperati”
diretto e supportato dall’impareggiabile Guido Zarone. Qualche anno fa
venne perfino insolentemente spogliata e depredata di alcuni suoi
pezzi tra i più emblematici. Si provvide col senno del poi a
sprangarla saldamente come un bunker, ma senza attenzione o riguardo
per i visitatori ora versa in quasi delirante abbandono tra polvere,
ragnatele e variegata sporcizia in attesa di un’incisiva quanto
dignitosa valorizzazione che ne permetta una visita decente e un
eventuale studio di parecchie evidenze scultoree ed epigrafiche ancora
inedite e interessanti se non da un punto di vista estetico-formale,
con assoluta certezza da quello storico-documentale.
Nel frammento di Teano di autore ignoto, espressivo documento
archeologico e teologico iconografico di ottimo livello, apposto di
fronte a uno stupendo bassorilievo di epoca longobarda raffigurante
uno stilizzato maestoso leone di superba eleganza decorativa, del
pesce si può appena intravvedere ora la pinna caudale in bella vista
ridotta a quattro strie segmentate.
Ma di Giona per fortuna resta ancora il bel volto rappresentato in
modi “barbarici”: dagli occhi un poco obliqui e spiritati, l’esigua
fronte accentuatamente aggrondata, il collo affusolato,la bocca appena
appena contratta in una piega amara, il filiforme naso a punto
esclamativo che definisce l’arcata delle distese sopracciglia, la
barbetta ben curata , i capelli fluidi nelle onde vorticanti, talmente
fluidi che le onde su onde nella tumultuosa fissità della scena si
fondono e si confondono con la folta capigliatura del nostro baldo e
ardimentoso eroe in un voluttuoso amalgama di un’esaltante, perfetta
sintesi compositiva.
Il torace arditamente sbilenco del profeta sembra nella fin troppo
adamantina invenzione dell’artista medievale, con molta probabilità di
formazione artistica longobarda, una variante di qualche mistico e
misterioso segno druidico.
Nel bassorilievo si può rilevare una forte tendenza a stilizzare la
figura umana con un particolare risalto per le onde, al fine di
inventarsi con raffinata sapienza creativa superfici animate da
intricati grovigli vibranti e si può dire tempestosamente gorgoglianti
sotto la luce. In più si nota come la levigata, quasi trasparente
figura del disubbidiente profeta appare risolta con delle
contradditorie sproporzioni formali, una voluta, quasi studiata
disarmonia plastica al fine di sottolinearne incisivamente il gesto
funzionale, in altri termini le proiezioni natatorie del soggetto
rappresentatovi.
Il racconto di Giona e la balena è condotto qui su un registro meno
accademico e fastoso degli altri esemplari consimili (vedasi tra gli
altri il reperto lapideo della cattedrale di Sessa). Più lineare e
schematizzato, con soffice sobrietà il Giona di Teano si adatta a un
linguaggio artistico e a una configurazione stilistica di più
essenziale lettura con tutto l’ estenuante, diafano incanto della
docile flessuosità delle onde incalzanti la fluviale chioma del
profeta, che ne costituisce il motivo conduttore.
Il trionfo della cosiddetta arte barbarica sulla classica compostezza
della classicità espressa in formule plastiche e di puro
decorativismo. Il mostro inghiottitore è anche uno dei modi simbolici
che l’arte cristiana ha mutuato dall’arte classica, il cui riferimento
più calzante è quello di Giasone nel momento più cruciale della
ricerca del vello d’oro.
Quello che però importa è che Giona non muore; non deve e non può
perché pentito in extremis della proditoria diserzione.
Inconsueto è solo lo strumento dello scampo: la grande balena sul
conto della quale il libro di Giona non è stato più esplicito.
Quel pesce immenso nel ventre del quale si completa il processo
redentivo di Giona al punto tale che Gesù se ne serve abilmente come
estatica metafora della sua morte e resurrezione in uno dei tanti
incontri “in punta di piedi” con i suoi seguaci.
Morte e resurrezione della quale il nostro eroe da recalcitrante
profeta si trascende in puro simbolo e “ il segno di Giona “, il pesce
(ἰχθύς in greco, iniziali di Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore) dal
cui grembo rigermoglia la vita diventerà uno dei primi simboli
paleocristiani, sempre magistralmente e diffusamente interpretato
nell’arte catacombale e sui primi sarcofagi scolpiti.
Il libro di Giona: una complessa, delicata, convincente narrazione che
si materializzò splendidamente limpida a Teano nella fluida,
trasognata, languida lastra della cripta di S. Paride per opera di un
ignoto scultore dall’estro “barbarico” e si espresse felicemente
Giulio De Monaco