di Michele Serra
Un grande poeta. Un innovatore attaccato alla tradizione. Idolo di diverse generazioni. Ritratto dell’artista modenese
(14 giugno 2010)
Guccini, del resto, era di quelli che sui banchi di scuola, quando scoprivamo i cantautori, giravano anche trascritti su foglietti volanti (come De André, come Dylan, come Brassens tradotto), e il disco a 33 giri era il coronamento di un approccio tecnicamente letterario: il testo della "Locomotiva", pazientemente ricopiato in stampatello nonostante la lunghezza fluviale (Guccini è il contrario di un epigrammista), lo lessi in terza liceo prima di sentire la canzone in casa di un amico anarchico estasiato, che maneggiava il vinile di "Radici" come si fa con i testi sacri.
Guccini è prima di tutto parola, parola pronunciata con quella involontaria solennità che gli deriva dalla voce tonante, dalla erre arrotata. La voce di un narratore fieramente premoderno, antiermetico, che non esita a prendersi il tempo per i dettagli, gli aggettivi, gli incisi. La fretta non appartiene all’uomo, che è un montanaro degli Appennini pieno di cura per la conversazione, il vino, il convivio, la lettura e la scrittura, né all’artista, che costruisce le sue storie come se il ritmo della televisione non lo tangesse.
Questa orgogliosa "antichità" della sua arte è un lussuoso paradosso: nei primi anni Sessanta, quelli del beat e della "canzone di protesta", il ragazzo Guccini fu tra i veri innovatori della scena italiana. Nei suoi primi pezzi c’erano Salinger e Kerouac, la bomba atomica, l’irruzione deflagrante dei temi sociali. Fu autore scelto dei primi "capelloni", più americano che francese, e in quegli anni più avanti di parecchio rispetto a grandi classici della canzone italiana moderna come Paoli, Bindi, Tenco. ? il solo, tra i grandi cantautori italiani, a venire dal beat, a formarsi, tra Modena e Bologna, negli anni così cari a Edmondo Berselli, quelli di una rivoluzione dei costumi e degli spiriti non ancora imbragata nell’ideologia.
Da lì, Guccini si defila e si concentra sulla propria poetica, che è soprattutto narrativa. Storie di amori, di ubriachi, di antenati, di miti popolari, ricognizioni nella storia sociale e nella geografia, luoghi della memoria, l’intimismo dei cantautori che si fa da parte per raccontare soprattutto gli altri. La definizione di "cantastorie", che in genere si spende un po’ a caso per parecchi dei nostri cantautori, nel suo caso è più calzante che in altri. E il fascino unico della sua narrativa in versi e musica sta in un anacronismo quasi inspiegabile, e potentissimo: Guccini scrive e canta come se il turbine dell’epoca, la petulanza delle mode, nemmeno lo sfiorasse. Proverbiale, e amatissimo dai fan, il manifesto pluridecennale che lo accompagna quando fa i concerti (pochi, lui è pigro e memorabile fu la sua risposta all’invito di una trasmissione televisiva: "non posso, sto finendo un puzzle"). Lui con la barba nera, sgranato, potrebbe essere l’immagine di un brigante appenninico o di un hippy, di un fuori-corso sessantottino o di un monaco ortodosso, è comunque un marchio di immutabilità che indica il miracolo (perdurante, e ormai più che quarantennale) di un artista anziano che raduna sotto il palco una manciata di generazioni, compresi i giovanissimi che cantano a memoria canzoni scritte quando nascevano i loro padri: come se da ragazzini noi avessimo cantato Rabagliati o Perry Como o i Cetra.
Come capita solo ai classici, questa apparente immobilità è vincente. Sbuca dalle macerie di ogni moda morente, di ogni tendenza dimenticata, con la forza di un solido, di una costruzione paziente e non deperibile. Guccini è una roccia. In un paese fragile, emotivo, suggestionabile, Guccini è un padre vero. Gli amici lo chiamano "il Maestrone": mai soprannome fu più calzante, anche nell’affettuosa derisione di un uomo grande e grosso che è anche un grande, magistrale artista.
[l’espresso.it]