Avrò avuto intorno ai dieci anni quando mio padre, per la prima ed unica volta, mi raccontò una parte della sua vita. Aveva ventiquattro anni ed era appena tornato a casa, per le vacanze, da Biserta, città della costa libica, dove insegnava presso una scuola italiana all’estero, quando l’altisonante voce tuonò da piazza Venezia, a Roma, annunciando che “la dichiarazione di guerra è già stata consegnata, stamattina alle sette, nelle mani dell’ambasciatore francese”: era il 10 giugno del 1940! Dopo due mesi ripartì per la Libia, ma indossando la divisa di ufficiale del Regio Esercito; fu catturato poco prima della battaglia di El Alamein e condotto prigioniero in India, dalla quale ritornò dopo sei anni, nel 1946. Non credo proprio che in quei sei anni (e non due mesi) trascorsi (non in casa, ma in una baracca alle falde del Kilimangiaro) abbia sentito come incontenibile il desiderio di fare una gita nel parco, o prendere un aperitivo con gli amici, di fare footing (che brutta parola!), di andare in palestra, di portare il cane a spasso, di andare in discoteca o di mangiare una pizza, al punto tale da trasgredire ogni controllo o di lamentarsi senza sosta. L’alternativa sarebbe stata quella di prendersi una mitragliata inglese sul campo di battaglia di Tobruk, certamente non più piacevole di una polmonite interstiziale da coronavirus. Spero di aver espresso chiaro il concetto, ma parliamo di altri tempi e di altri uomini.
In questi mesi di pericolo maggiore per la nostra salute abbiamo assistito a cose incredibili. Abbiamo conosciuto i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPMC), tanti e sovente inconcludenti, quelli dei Presidenti delle Regioni e le ordinanze sindacali: tutti sovente in contraddizione tra loro. E meno male che le Province non servono più ad un beato cavolo, altrimenti avremmo avuto anche i decreti provinciali.
Abbiamo assistito alle intemperanze stupide e pericolose di chi voleva passeggiare nel parco o farsi l’aperitivo con gli amici; alla stupidità di chi snobbava mascherine e guanti; ad una indicibile messe di stupidità vomitataci addosso da illustri virologi, epidemiologi ed igienisti mondiali e, sovente, alle loro liti da cortile; a cambi repentini e immotivati di responsabili della P.C. ; a intoppi burocratici da parte degli Enti deputati al sostegno ai lavoratori; a iniziali fenomeni di accaparramento di beni alimentari; a promesse di mascherine e guanti che avrebbero dovuto gratuitamente sommergerci, ma che nei fatti non abbiamo trovato neppure nei negozi, se non a caro prezzo; ad un vergognoso comportamento delinquenziale di cosiddetti imprenditori che si sono improvvisati produttori delle succitate mascherine e persino di liquidi disinfettanti non omologati né certificati da chicchessia. Mentre la TV di stato e le sue consorelle private, per alleviarci le ore di restrizione in casa, ci riproponevano per la decima volta la serie di Montalbano e rispolveravano trasmissioni di dieci anni fa; e per fortuna che ci hanno risparmiato “Il Musichiere” e “Lascia o Raddoppia?”! In compenso abbiamo sbandierato il tricolore da tutti i balconi e le finestre, abbiamo cantato l’inno d’Italia, abbiamo fatto le collette per la Protezione Civile, abbiamo donato pizzette ai bambini: e siamo diventati il terzo paese al mondo per numero di morti, oltre duecento dei quali tra medici e personale sanitario.
Nessuno è ancora al sicuro: l’unica difesa contro il virus è il contenimento del contagio, che si esplica con la distanza sociale e l’uso di mascherine e guanti, del quale molti non hanno ancora capito le finalità e le modalità di applicazione. E sono fermamente convinto che le avrebbero apprese se a spiegarle loro non fosse stato ogni giorno uno “scienziato” diverso, ma lo avesse fatto un semplice studente del terzo anno di Medicina, dopo l’esame di Batteriologia, o di Igiene. Almeno quelli di una volta!
Ma siamo vittime perenni dei “media”, che è parola latina e non inglese, e si legge così come scritta; e lo stravolgimento, anche se non sempre voluto, di avvenimenti e notizie ha lentamente prodotto rivalutazioni o svalutazioni fasulle di partiti o personaggi politici.
Da ultimo l’enorme impatto della pandemia sulla economia mondiale rappresenta, dopo le morti, il secondo più grande danno che il virus ci ha provocato. Ma il problema è talmente serio ed appare sottovalutato notevolmente da tutto quanto detto prima, come dall’orchestrina che suonava mentre il Titanic affondava.
“Io speriamo che me la cavo” è il titolo di un famoso libro del maestro D’Orta, che ho avuto il piacere di conoscere ed intervistare per una platea di amici. Parafrasandolo mi verrebbe da dire “noi tutti speriamo che ce la caviamo”, fisicamente e psicologicamente.
Claudio Gliottone