Il maiale. Tanto disprezzato da vivo quanto apprezzato da morto, animale segnato da un crudele destino, una vita breve ma almeno interamente vissuta all’insegna dei ben noti ‘porci comodi suoi’. Privo del diritto all’umana pietà funebre, tantomeno a quello della degna sepoltura, poiché nulla restava della sua carogna scientificamente sezionata ed utilizzata in ogni minima parta, per le più svariate e fantasiose destinazioni.
Non un funerale quindi, ma certamente un vero e proprio rito per l’uccisione del porco, un evento legato alla famiglia, alla casa di un tempo, che nell’occasione riceveva il solidale aiuto di amici, vicini o parenti, uniti a formare uno staff per la delicata operazione, volta a garantire una duratura riserva di cibo, cosa essenziale per l’economia familiare.
All’alba, mentre le donne erano a guardia dell’enorme pentolone d’acqua in bollitura ed a curare i dettagli preparatori per l’ambiente adibito per l’occasione a scannatoio, il plotone di esecuzione partiva alla volta della stalla. Il gruppo era formato dai maschi di famiglia, con l’aggiunta di quelli aggregati.
Iniziava così il calvario del povero animale, che veniva prima circondato dagli uomini, poi aveva inizio la lotta per trafiggerlocon un uncino d’acciaio che andava agganciato ad una cavità del mento e legato al muso. Talvolta, se il suino era particolarmente vivace o il gruppo era un po’ carente nella tecnica o negli attrezzi, si scatenava una rocambolesca rissae non erano rare le occasioni in cui il maiale riusciva a fuggire. Allora la cattura coinvolgeva e divertiva l’intero rione ed, una volta riacciuffata la preda, il trascinamento per il rientro si trasformava in un’affollata marcia trionfale, annunciata dall’acuto ed itinerante grugnito come richiamo ai curiosi, che non si facevano scappare l’occasione di assistere all’epilogo di quello che era l’ultimo fatto di cronaca.
Una volta steso il maiale sul tavolaccio, aveva inizio la fase più drammatica: gli uomini più forzuti immobilizzavano la testa e le zampe, mentre a qualche ragazzino veniva affidato l’inutile compito di reggere la coda. Infatti, reggere la coda era inutile, ma far assistere il bambino a quella orribile scena di sangue e sofferenza, secondo un modello educativo dell’epoca, aveva uno scopo ben preciso: temprarlo, fargli superare le paure e quindi farlo crescere.
A quel punto, lo specialista di turno sferrava il primo colpo alla gola, che serviva esclusivamente ad aprire un varco al sangue vivo. Solo il sangue fuoriuscito in quella fase ed accuratamente raccolto dalle donne era utilizzabile per i famosi sanguinacci, quindi la durata dell’agonia era direttamente proporzionale alla quantità di sanguinacci e non si può nascondere che spesso e volentieri l’avidità prevaleva sulla pena per la bestia, che riceveva il colpo di grazia molto tardi o moriva addirittura dissanguato.
Superata questa fase di pathos, il compianto animale veniva ripulito per bene all’interno ed all’esterno e, mentre le donne curavano lo svuotamento e la selezione delle interiora, ai maschi spettava il faticoso compito dello sfascio.
A quel punto, poiché non era ancora contemplato il concetto di pari opportunità, mentre le donne erano prese dal delicato e vomitevole compito di liberare il chilometrico intestino dalle pur genuinissime feci, i maschi si concedevano una allegra merenda con la cosiddetta leccaressa, parte di carne del collo particolarmente gustosa. A seguire, vi era la lunga e laboriosa preparazione di insaccati e prosciutti, mentre gli arrosti, fegatini e suffritti dominavano le tavolate di queste giornate di fatiche fuse all’allegria.
Nostalgia per queste antiche tradizioni? Niente affatto: i bambini crescono benissimo con cartoni animati, costruzioni lego o computer, si può vivere bene anche senza sanguinacci, la salsiccia secca benissimo nei tessuti sintetici e la carne è deliziosa anche se il maiale muore all’istante, addirittura lo sarebbe anche se morisse di vecchiaia.