Lo spirito di questa officina è proprio quello di indurci all’audacia del pensare in maniera autentica liberandoci degli orpelli della logica formale, a costo di renderci presuntuosi agli occhi del gregge, fino ad arrivare a toccare i significati autentici, a partire da quello a fondamento di tutti gli altri significati: l’essere. Lo facciamo con l’umiltà della ignoranza socratica: lo facciamo con lo spirito di chi sa di non sapere.
Lo spirito del nostro tempo è quello della violenza, quello della guerra, che evocano il concetto di morte, che la società moderna, paradossalmente, tende a rimuovere. La morte è lo scandalo della filosofia; è quell’interrogativo ultimo la cui risposta non sarà mai all’altezza della domanda. Il tema della morte è un tema difficile, incestuoso. Noi siamo volontà di vivere e la morte ne è l’esatta contraddizione, in quanto non volontà, in quanto implosione di ogni senso, ma anche in quanto non esperibile quindi non conoscibile. In questo quadro è una posizione parossistica quella dei media, che spesso spettacolarizzano la morte, senza porsi alcun problema sulle ricadute psicologiche del mondo che guarda. La deontologia professionale sembrava bastare in una società sorretta dalla tradizione assiologica, valoriale. Ma l’uomo sta cambiando pelle, l’umanità è investita da un cambio di paradigma epocale perché antropologico; ne nascono nuovi doveri da parte di tutti noi, che in qualche modo dobbiamo riuscire ad essere contemporanei di noi stessi, stando all’altezza del nostro tempo storico. Emanuele Severino, ((1929 _2020) il più grande metafisico contemporaneo (certo non della metafisica classica), fa una nuova filosofia. Una sorta di religione senza Dio, dove il prestigio che spetta a Dio è lasciato interamente all’uomo, che non sa di essere un re, credendosi un mendicante. Severino ci indica un nuovo pensiero, di cui dice essere solo il testimone, un po’ come fa Parmenide con la sua dea della verità. La logica che ha strutturato l’occidente tutto, fatica a seguirlo. La logica formale dell’occidente ha dimenticato l’ontologico (la scienza dell’essere in quanto tale, a prescindere dalle sue determinazioni) ha dimenticato la metafisica. È una logica alienata da un nichilismo che signoreggia sulla modernità di tutto il pianeta. Non è che per poter vivere dobbiamo conoscere per forza Platone, ma la logica che tutti noi usiamo per poter fare qualsiasi ragionamento valido viene dai suoi postulati, che, come tutte le regole prime, sono convenzioni, non sono leggi incontrovertibili. Per la metafisica tutto ciò che è logico, non può che essere anche ontologico, perché tutto ciò che è, proprio in quanto è, mostra anche la sua natura ontologica (il suo essere). Certo un pensiero non può apparire come appare un tavolo, dice la logica formale, ma Hegel ci ha mostrato come l’astratto venga prima del concreto (per definire la mela, necessito prima del concetto di frutta). Kant si libera troppo velocemente della metafisica, è pur sempre un illuminista: divide la realtà in fenomeno e noumeno (la cosa per me, e la cosa in sé),rinunciando all’infinito .Ma Hegel gli dirà :”come fai a dubitare dell’infinito, di quello che dici inconoscibile, se ne stai già parlando ?“. Perché A sia A deve apparire anche NON A: un soggetto senza il predicato è un soggetto? Un particolare senza l’universale è un particolare? Essere senza nulla è essere? E il giorno senza la notte? Il giovane senza il vecchio? io senza l’altro? tutto si distingue e si oppone per essere. Lo speculativo in Hegel è l’unione delle determinazioni opposte. La logica contemporanea rifiuta l’ontologico e lo stesso principio di opposizione, si guarda solo all’essere oggettivo, al fenomeno, relegando il pensiero come noumeno; ma io so che esiste il mio pensiero, sarebbe altrimenti un non pensiero, come si fa a rinunciare all’ontologia? La differenza tra fenomeno e noumeno di Kant è indimostrabile, la loro natura è la stessa, sono tutti e due un “essere” quindi tutti e due ontologici oltre che logici. Il pensiero vede sé stesso, è cosciente di essere. Il pensiero dunque non è meno reale di qualsiasi altra cosa che esiste. Anche la fisica riesce a sostenerlo, certo vale per quella deterministica. Il metodo scientifico resta quello probabilistico, statistico, non sa niente della verità, ma anche la relatività di Einstein dice che passato e futuro non sono meno reali del presente. Einstein ci dice che il mondo è, non accade, ci spiega il suo eternismo con l’esempio della bobina su cui sono avvolti tutti i fotogrammi già da sempre, ma che vedremo in maniera progressiva allo srotolarsi della bobina (Popper zittisce la relatività, perché alla domanda sull’ubicazione della bobina Einstein non seppe rispondere). Anche Severino è un eternista. 60 anni fa scrisse La Struttura Originaria, 800 pagine di alta teoretica filosofica che ha cambiato per sempre la storia della filosofia. Massimo Cacciari dice che quella di Severino è una gigantomachia, si confronta con Aristotele, Platone, Hegel, confutando la temporalizzazione del P.D.N.C. (principio di non contraddizione) principium firmissimum, cioè il principio più saldo di tutti, il fondamento della ragione umana, impossibile da negare. L’eventuale negatore di questo principio non riesce a costituirsi perché negandolo lo assume, invalidando il suo dire in quanto autonegazione. . Aristotele tematizza il principio nel libro Gamma, il quarto libro della metafisica, per salvare il mondo dal nulla in cui Parmenide lo aveva fatto precipitare. Aristotele di solito è molto cauto, ma definisce Parmenide padre venerando e terribile, perché fa’ del mondo un’illusione. L’ essere è e il non essere non è, ma per Parmenide essere è solo l’ineffabile, la luce originaria, l’ente non è essere, quindi il mondo non è. Già Empedocle ne tenterà il parricidio, ma mancherà l’obiettivo. Platone riuscirà per metà, perché salverà tutte le determinazioni dal nulla, ma sarà una salvezza momentanea. lo PDNC dice che l’ente è fintanto che è, quindi, per Severino, Aristotele ha chiuso la stalla dopo aver fatto uscire i buoi, perché è vero che l’ente non sarà nulla, come per Parmenide ma non sarà neppure essere. La “struttura originaria “è dell’esser se’ dell’essente, che non è una banale tautologia lessicale, ma è l’identità originaria di tutto ciò che esiste di tutto ciò che è.
Il PDNC sta alla base di ogni dire logico-razionale, nulla può essere detto senza rispettarlo (il principio recita: è impossibile che la stessa cosa sia e non sia sotto il medesimo rispetto). È come dire che il bue non è il cavallo; la logica vuole che non possiamo sostenere che il bue sia il cavallo proprio in rispetto alla struttura originaria delle identità. Medesimo rispetto però, significa: nello stesso momento, è come dire che in un tempo altro, la cosa può non essere, è come dire che il bue domani può essere il cavallo. Severino considera Aristotele uno dei maggior responsabili del nichilismo perché la sua formulazione del PDNC è la negazione più radicale del principio stesso, cioè di ciò che intende essere, ammettendo che l’ente può non essere, ammette la possibilità di ciò che per Severino è la contraddizione estrema. È proprio ciò che presta il fianco al nichilismo, che caratterizza tutto l’occidente mascherato nell’inconscio di ognuno di noi. Certo che siamo di fronte a una pretesa, il suo pensiero non è mai stato detto da nessuna forma sapienziale. È inaudito e controintuitivo per ciò che la nostra logica concepisce come valido. È inattuale, difficile da tradurre per tutti, Aristotele direbbe che è una follia che l’ente sia sempre, che sia eterno. Anche questa filosofia è mossa dal pathos, dalla paura della morte, come per la filosofia tout court. È sicuramente un pensiero limite quello di Severino, altrimenti non sarebbe neppure un pensiero. Certo la sua eternità non è dell’io empirico (non nega certo la morte), ma è della totalità degli enti, che ci apparirà nell’infinito separato dalla vita del mortale (che Severino chiama terra isolata). L’eternità dell’essente è nella sua relazione necessaria con il Tutto, quindi qualcosa che sta oltre l’uomo, e che in questa vita possiamo intravedere solo nel linguaggio severiniano, poco accessibile anch’esso, perché alta teoretica, quindi poco divulgativo. Il suo pensiero non è per tutti, ma leggere i suoi scritti educa alla radicalità, educa a pretendere la profondità del pensiero anche quando il suo abisso allontana dalla logica formale. Solo se è scandalosa la filosofia ci può ancora salvare, solo se contrasta fortemente questo reale folle, irrazionale, patologico, può ancora servire agli uomini. Urgerebbe un dialogo interdisciplinare. La corsa alla quantità, alla produttività, all’efficacia, toglie alla qualità della vita, tutte le professioni sono massimamente elaborate da un punto di vista tecnico ma trascendono tutte dalle categorie coscienziali, fino a fare della tecnica, la struttura originaria di qualsiasi identità, che illudendosi di usarla, finisce per assumerne lo scopo (che è la sua auto potenziamento all’infinito). A definire un ‘azione è il suo scopo, se cambia lo scopo cambia anche l’azione: credo sia innegabile che lavorare per vivere non è la stessa cosa che vivere per lavorare, che mangiare per vivere non è la stessa cosa che vivere per mangiare. Keynes, grande economista di inizio secolo, cento anni fa diceva già che la tecnica avrebbe potuto risolvere la fame nel mondo, o la siccità, ma non lo avrebbe fatto, perché non era quello il suo scopo. Parliamo tanto di inutilità della filosofia, della metafisica, e con lo stesso metro misuriamo l’importanza del razionale, della logica che governa la ragione, regina indiscussa dall’illuminismo in poi. Ma è poi così razionale l’Occidente?
Siamo 7 miliardi e mezzo sul pianeta e produciamo cibo per 12 miliardi di persone. Il dato assurdo è che 860 milioni di esseri umani soffrono la fame. Sprechiamo il 33% del cibo prodotto, 1,3 bilioni di tonnellate di cibo, e lasciamo morire di fame un grande pezzo dell’umanità.
Questa è la scienza senza la coscienza, questo è il fisico senza il metafisico, questo sono io senza l’altro (come insegna la logica formale). Questo succede quando ci accontentiamo del relativismo, dell’individualismo, del razionalismo, del pragmatismo, del concretismo; quando ci fermiamo alle varie prassi, senza preoccuparci di capire da dove vengono, buttando via il bambino con tutta l’acqua sporca. Stando alla sola prassi, Hitler e San Francesco sono due centri di forze che vogliono cambiare il mondo, credendo ognuno nel valore della propria prassi. E’ di capitale importanza, dunque, sapere cosa si nasconde sotto il fare. L’astrattezza dei filosofi ha una matrice negativa perché sembra essere lontana dai nostri interessi immediati, ma è anche vero che ci fornisce quella radicalità senza di cui il concreto non si capisce. La filosofia riguarderà sempre la sfera emotiva, siamo noi, non è una scienza, nasce per contrastare la paura che accompagna l’uomo da quando è sulla terra: la paura della morte. Aristotele la fa nascere da Thauma che viene malamente tradotto con meraviglia, ma con quel Thauma Aristotele intendeva parlare dell’angosciante terrore per la morte. Eschilo dirà che può pensare solo a Zeus per scacciare un dolore così grande. Che cos’è la tragedia greca se non questo, se non la consapevolezza della morte. Già il mito nasceva da questa inquietudine dell’uomo, che con il gran tempo diventa filosofo e si affiderà all’episteme, alla verità, per riuscire a sopportare il nuovo senso che i greci daranno alla morte. Saranno i greci ad inventare il concetto di nulla, per la prima volta, nella storia dell’uomo, si morirà di fronte al nulla, dopo esserci intrattenuti per millenni, intorno al cadavere. Questo quadro reggerà fino all’annuncio di Zarathustra, il Mosè senza Dio di Nietzsche, che martellerà la verità fino a distruggerla, imponendo al mondo quell’ospite inquietante che signoreggia in tutto l’occidentale: il nichilismo. Affidando alla tecnica il ruolo di ultimo Dio. È vero la tecnica funziona, ma non promette orizzonti di salvezza. Nietzsche fa nascere un superuomo, o meglio un oltreuomo che santificherà la volontà di potenza sull’altare del cielo vuoto, senza Dio. Ma siamo veramente liberi senza Dio? Siamo diventati veramente migliori senza la verità? Portare Dio in terra ci ha resi più felici? Le nuove divinità hanno dato le felicità promesse? Il denaro, il benessere, il piacere sessuale, ciò che più conta per ognuno di noi, ci hanno reso migliori? Non credo che l’umanità abbia imboccato la strada giusta se la ricerca era quella del senso della vita, del fine ultimo, dell’eskatos, e non credo neanche che sia una domanda a cui si possa rinunciare, è ciò che ci umanizza più di ogni altra cosa, anche se la risposta a quella domanda non ha un nome umano.
Certo che il benessere ormai sembra essere una nostra dimensione naturale, quasi dimentichiamo di essere mortali. La nostra quotidianità è fatta di abitudini, addirittura di noia, ma i sintomi (che palesemente mostra questa società malata) sono il luogo di una verità rimossa, lo dice anche la psicanalisi: ci siamo accontentati di una commedia pur di evitare l’incontro con quella tragedia che nonostante le sue contraddizioni è anche la nostra vita, siamo anche noi.
Anna Ferraro
La morte è un sapere non un’esperienza. Se c’è la morte non ci sono io, se ci sono io non c’è la morte.
Cit. EPICURO.