Una delle affermazioni utilizzate per esorcizzare la cosiddetta “questione meridionale” è che l’unità italiana è nata male. In genere questo viene detto da chi riconosce che nella conduzione politica dei primi anni successivi al 1860, soprattutto fino al 1870, furono prodotti errori gestionali che minarono alla base il processo unitario, errori che probabilmente non sarebbero stati commessi , ad esempio, se la vita di Cavour fosse durata un po’ più a lungo.
Ma non è così. Questa è una lettura superficiale e giustificazionista degli avvenimenti, fatta con spirito “cattolico” (gli errori presuppongono indirettamente l’involontarietà , e quindi contemplano il perdono) e non con rigore storico. La conquista del Sud fu eseguita così come era stato progettato a tavolino. Forse solo la resistenza della popolazione indigena, successivamente al 1860, fu una brutta sorpresa. Basta leggere i diari di Cavour, valutare le mosse della diplomazia sabauda ed interpretare quel che è avvenuto dal ’60 in poi. Forse, e dico forse, all’epoca c’era stato solo qualche “utile idiota” illuso di fare una cosa diversa, utilizzato e poi brutalmente scaricato quando non serviva più. Qualcuno bravo nel suo campo, tanto bravo da vincere battaglie anche quando l’esercito sabaudo perdeva. Oddio, non che ci volesse molto, considerato che l’esercito sardo da solo non ha vinto una schifezza di battaglia nell’800; anzi no, una la vinse, contro i papalini, ma con forze talmente soverchianti che avrebbero vinto solo col rumore che facevano. Scusate la digressione. Ed allora,che era stato studiato? Cosa si voleva ottenere?
Dopo aver letto quasi un centinaio di libri sull’argomento (dai testi di storia ai saggi di economia, di statistica, alle biografie ed autobiografie) seri e fondati o romanzati e fantasiosi, dalle interpretazioni benevole o di parte degli avvenimenti, con ricerche di prima mano o dopo tre o quattro "sentito dire", credo di essermi fatta un’interpretazione reale e fondata di quanto è avvenuto, specialmente al Sud, dall’inizio dell’800. Il succo è che la conquista e la successiva occupazione dell’antico Regno è avvenuta, al di là della retorica risorgimentale che ancora annebbia la testa di molti, con lo spirito e gli scopi dei colonizzatori; in altre parole, quello che gli imperi dell’Europa occidentale avevano pensato di ottenere in Africa ed in Asia, il regno di Sardegna aveva calcolato di ricavare dai suoi vicini. La cosa fu chiara da subito, anche se i conti sono stati fatti per la prima volta, ufficialmente, qualche decennio dopo. Quando un popolo, un re, uno stato, ne libera un altro o porta avanti una unità non forzata perché ritiene che sia in una situazione di superiorità, sa che dovrà essere pronto ad investire parecchie risorse per portarlo al proprio livello. Ci sono tantissimi esempi negli ultimi due secoli, qualcuno addirittura negli ultimi anni, dopo la caduta del Muro. Se invece pensa di impadronirsene per sfruttarne le risorse, allora l’intento è coloniale. In vista dell’Esposizione di Parigi del 1900, il Ministero dei LL.PP. del regno d’Italia pubblicò tre ponderosi volumi, “I pagamenti fatti dallo Stato per opere pubbliche negli esercizi finanziari dal 1862 al 1896-97”, il cui studio è molto interessante ed a cui rinvio. Riporto qua le conclusioni che ne ricava, dopo un attento esame, Francesco Saverio Nitti: “Sotto l’aspetto della popolazione, come sotto quello dell’estensione territoriale, o sotto quello di una media proporzionale tra l’uno e l’altra, tutto considerato, ferrovie, strade, opere idrauliche, bonifiche, spese per lavori portuali e per le coste marittime, tenendo conto di ogni cosa, risulta sempre che per l’Italia meridionale si è speso meno. E così cade la leggenda che il Mezzogiorno d’Italia abbia profittato in maggior misura dei lavori pubblici, con danno dell’erario e con ingiustizia verso le altre regioni; una leggenda che non è solo falsa, ma che sopra tutto è immorale, poiché par quasi una crudele ironia a popolazioni il cui sviluppo non è stato certamente favorito da tutte le leggi dell’Italia odierna”. Nitti, da bravo economista, nelle sue ricerche, a cominciare da quelle pubblicate in “Nord e Sud”, esegue una comparazione serrata, tenendo conto di statistiche pubbliche, di tutti i dati confrontabili, dalle spese scolastiche (a proposito, lo sapevate che una legge del 1861, esattamente del 16 febbraio, stabiliva che in Italia meridionale, e solo lì, i licei si dovevano limitare ai soli capoluoghi di provincia? E che furono soppresse le università di Aquila, di Bari, di Salerno e di Catanzaro lasciando la sola università di Napoli?) al debito regionale, alle imposte su base ex nazionale, alle spese militari, dal 1861 al 1898. Sempre risultano benefici enormi al Nord a spese del Sud. Insomma, “Prima il Nord” non è uno slogan dei nostri giorni: esiste nei fatti dal primo giorno della conquista del Sud.
Questa situazione non è mai cessata. Basta vedere i dati che vari Autori riportano nei loro libri, tra gli ultimi i proff. Viesti e Savona per finire con la Banca d’Italia: risulta sistematicamente che il Sud paga più di quanto gli venga elargito dallo stato centrale, checché ne dica la lega nord. Dal secondo dopoguerra in poi, l’intervento effettuato nel Sud dallo Stato è stato “straordinario” nell’intenzione, ordinario nei fatti, discutibile nei risultati. Chi non si vuole impegnare nelle letture basta che ascolti qualche confronto televisivo di Marco Esposito, presenti anche su YouTube. E vedrà la figura barbina che fanno i suoi interlocutori, costretti a balbettare dall’evidenza dei numeri.
Questa situazione purtroppo è andata man mano aggravandosi, fino a giungere al dato ISTAT che fotografa il PIL per abitante del 2013: 17.200€ al Sud contro 33.200€ del nord-ovest, un abisso. In Europa, inferiore a quello di Slovenia e Croazia, appena uscite da una guerra. Su quattro giovani, uno lavora, due cercano inutilmente lavoro, il quarto ormai non lavora né lo cerca.
Il governo attuale riesce a far peggio di Tremonti, la volpe nel pollaio, il massimo: ormai ha quasi privato il Sud degli investimenti statali, riducendolo ancora di più al rango di colonia, e delegando ancora una volta gli investimenti all’intervento “straordinario” dell’Europa: ha previsto, e non ancora finanziato, un’unica grande opera, l’ampliamento della linea ferrata Napoli-Bari spacciandola per alta velocità, sul tracciato già progettato negli anni ’50, ma del 1800. A fronte di quest’unica “grande” opera per tutto il Sud, nella sola Venezia, ad esempio, a scandalo Mose ancora caldo, sono previsti: il porto offshore per 2,2 miliardi; lo scavo del canale Contorta per l’accesso delle navi da crociera al porto interno; la risistemazione della zona di Tessera, dove c’è l’aeroporto, con la costruzione del nuovo casinò e del nuovo stadio; la bonifica di Porto Marghera, con la speranza che non vengano a “regalare” a noi i prodotti della bonifica. In Lombardia, dopo l’EXPO e relativi scandali, e dopo l’A 35 BREBEMI, è in corso di costruzione l’A 36 Pedemontana con un onere a carico dello Stato, per il momento, di 1,2 miliardi di euro, oltre alle nuove tangenziali di Como e Varese e nuovi e numerosi tratti di alta velocità ferroviaria. Non mi dilungo oltre.
Scrivo queste note in occasione della ricorrenza della caduta del Regno delle Due Sicilie, ripensando all’onore del Sud così ben difeso dagli eroi di Gaeta ed all’ultimo messaggio che il Re inviò ai suoi sudditi. Sulla figura storica di Francesco II e dei Borbone ognuno si forma l’opinione che ritiene, ed io non la voglio contestare. Fatto stà che questo giovane, quasi un ragazzo, seppe uscire con dignità e coraggio dalla Storia, lasciando tutti i suoi beni, anche quelli personali, ai napoletani, con la stessa dignità con cui ha vissuto il resto della sua vita. Oggi riposa nel nostro Pantheon, la basilica di Santa Chiara a Napoli, insieme ai suoi predecessori. Ottant’anni dopo, il successore del “vincitore” di allora scappò di nascosto da un porto del Sud, portandosi dietro tutto quel che poté avendo messo al sicuro in Svizzera il resto. L’erede di Francesco II gira di tanto in tanto il Sud, senza grancassa ed accolto con simpatia ed affetto dalla gente; quello del “vincitore” di allora è stato ospite delle patrie galere appena messo piede in Italia e già avendo scampato quelle francesi.
Direte: ti soddisfa questo? No, non mi soddisfa, perché comunque siamo nella condizione in cui siamo. Però questo pensiero mi piace quando ascolto le offese di questi che, per crearsi un passato, hanno dovuto inventarsi una parentela coi celti che non hanno. Sapete, le offese non provocate le lanciano quelli che soffrono di un complesso di inferiorità, e questi lo soffrono da un passato molto remoto.
Gino Gelsomino