Multinazionali del tabacco e tabaccai sono in rivolta. Per l’erario si prospetta una riduzione delle entrate. E, in attesa di dati definitivi sulla loro tossicità, c’è già chi ha deciso di vietarne l’uso.
Un fenomeno nato in Cina nel 2003 e che ora sta dilagando in tutto il mondo al punto che la società di analisi Euromonitor stima che il 5% della popolazione diventerà fumatore digitale nei prossimi anni, anzi uno «svapatore», visto che quando il condensatore della sigaretta elettronica si scalda produce solo vapore, particelle di glicerolo e (solo se l’e-fumatore la introduce nella miscela) nicotina in quantità variabile. Per il resto nel fumo della sigaretta elettronica non c’è catrame, né monossido di carbonio e neppure le altre 4 mila e più sostanze che imbottiscono le bionde tradizionali. E poi manca la combustione. Argomenti che hanno fatto breccia anche nel nostro Paese (dove un sondaggio Doxa afferma che su 10,8 milioni di tabagisti il 20% usa o intende utilizzare questa tecnologia), ma che portano con sé uno strascico di dubbi e polemiche.
Per l’Osservatorio fumo, alcol e droga dell’Istituto superiore di sanità non ci sono riscontri sul fatto che le sigarette elettroniche siano del tutto atossiche e per questo il ministro della Salute, Renato Balduzzi, ha deciso di vietare la vendita ai minori di 16 anni dei prodotti contenenti nicotina, in attesa di avere maggiori evidenze scientifiche per procedere a una regolamentazione. E nel vuoto legislativo ognuno si muove come meglio crede. Così nelle scorse settimane il fumo elettronico è stato vietato sui vagoni di Trenitalia e Ntv, ma anche sugli aerei Alitalia, mentre il primo comune italiano che lo ha bandito dagli uffici pubblici è stato Lomazzo, in provincia di Como, applicando anche una multa fino a 250 euro ai trasgressori. Poi sono arrivate le scuole superiori, i cinema e i ristoranti, dove si applicano i divieti più per esigenze di galateo che per tutela della salute.
L’e-cig (come gli anglofoni chiamano la sigaretta elettronica) è diventata un oggetto trasversale: la fumano le signore mentre giocano a burraco al circolo e gli addetti alle consegne sui loro furgoncini. I genitori la regalano ai figli, sperando di tenerli lontano dal fumo di tabacco, mentre alcuni datori di lavoro la consigliano ai propri dipendenti per tagliare i tempi della pausa sigaretta. Una piccola rivoluzione che ha come capitale Torino, dove nell’ottobre del 2010 ha aperto il primo shop fisico di e-cigarette d’Europa. Un presidio antesignano dei 1.500 negozi che sono fioriti in questi mesi e che danno lavoro ad almeno 4 mila persone, con un giro d’affari che nel 2012 ha superato 250 milioni di euro.
L’intuizione si deve a Filippo Riccio e ai suoi tre soci che nel 2009 hanno fondato la Smooke, leader in Italia nella vendita di sigarette elettroniche con 200 negozi e altrettanti in apertura nel 2013, una sessantina di dipendenti e 12 milioni di giro d’affari. «Uno dei miei soci fumava tre pacchetti al giorno, ma dopo due settimane di sigaretta elettronica aveva praticamente smesso» racconta Riccio «Così abbiamo intuito che potesse essere un ottimo business e dopo un anno e mezzo di vendite online abbiamo aperto un negozio fisico, soprattutto per dare modo agli e-fumatori di scegliere gli aromi».
Perché quel che fa letteralmente impazzire gli e-smoker sono i liquidi da inalare: ne esistono centinaia di varianti, con o senza nicotina, e la sola Smooke ha 18 persone che ogni giorno confezionano 40 mila flaconcini. «Noi non diciamo che la sigaretta elettronica è uno strumento per smettere di fumare, ma serve a trasformare il vizio in una passione» sottolinea Massimiliano Mancini, presidente dell’Anafe, l’Associazione nazionale fumo elettronico e fondatore della novarese FlavourArt, il primo produttore italiano di aromi per e-cigarette, che in 2 anni ha visto crescere i suoi dipendenti da quattro a 40. «Alcuni studi sostengono che si tratta di un modo di fumare meno pericoloso di quello tradizionale, dato che l’e-sigaretta sviluppa solo una nebbia colloidale come quella di un aerosol. Comunque questo è un business pulito e siamo proprio noi produttori a chiedere regole precise e stringenti per il settore». Che ora si trova in una zona grigia: tanti affari e niente accise per lo Stato.
I primi ad accorgersene sono stati i tabaccai: a Natale, periodo tradizionalmente favorevole alle vendite di sigari e sigarette, i prodotti da fumo hanno subito una contrazione del 10%, mentre gli acquisti di e-cigarette sono letteralmente volati. Una perdita secca anche per l’erario che lo scorso dicembre ha provato a introdurre un emendamento nella legge di stabilità per far vendere le sigarette elettroniche solo nelle tabaccherie: tentativo andato in fumo. Al centro del contendere la possibilità dei negozi di e-cigarette di vendere liquidi contenenti nicotina (e quindi tossici) senza controlli. «Tutto ciò che contiene nicotina è regolamentato dal Monopolio e la cessione è riservata ai tabaccai» tuona Francesca Bianconi, presidente dell’Assotabaccai. «Quello che sta avvenendo in questi negozi è una vendita selvaggia, senza controlli, di prodotti di dubbia provenienza e spesso privi dei bollini che ne segnalano la tossicità. Per questo chiediamo una normativa chiara per tutelare i consumatori e i tabaccai».
Perché, oltre alla salute, c’è in ballo il portafoglio. Per chi fuma un pacchetto al giorno, la spesa mensile arriva a circa 138 euro, mentre per chi fuma sigarette elettroniche, dopo l’investimento iniziale che va da 30 a 80 euro, la spesa mensile è di 25-30 euro, pari al costo di cinque-sei flaconi di ricarica. «Stiamo parlando di un risparmio anche del 70% per un tabagista» sottolinea Mancini. Soldi che non finiscono più nelle tasche delle multinazionali del tabacco che, pur non rilasciando dichiarazioni ufficiali, sono molto preoccupate dalle dimensioni del fenomeno.
di Mikol Belluzzi