Lo Stato italiano ha deciso di impugnare davanti alla Grande Chambre della Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo la sentenza della stessa Corte che nel gennaio scorso ha condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante di 7 detenuti, dando al nostro paese un anno di tempo per adeguare il sistema carcerario. Il ricorso, depositato ieri sera, ha un obiettivo dichiarato: guadagnare tempo,allungando i termini entro i quali i nostri istituti "inumani" dovrebbero rientrare negli standard umanitari europei.
Tamburino (Dap): l’Italia prende tempo
La conferma arriva dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Giovanni Tamburino, che nel corso di una conferenza sul tema delle carceri organizzata dalla Scuola di perfezionamento per le forze di Polizia, ha spiegato che la sentenza Cedu di gennaio «Sarebbe diventata definitiva dopo tre mesi se non ci fosse stata la decisione dello Stato di impugnarla di fronte alla Grande Chambre: quella sentenza dava all’Italia un anno di tempo per adeguarsi, un termine che ora decorrerà da quando si pronuncerà la Grande Chambre e qualora la pronuncia confermi la condanna». Un piccolo escamotage, quello messo in piedi dall’Italia, che ha però poche probabilità di sfociare in un ripensamento della Corte sui contenuti della pronuncia di gennaio: dopo l’emissione della sentenza da parte dei giudici, le parti possono sempre richiedere il rinvio del caso alla "Grande Camera", ma tali richieste vengono accolte soltanto in via eccezionale.
Margini più ampi per adeguare le nostre carceri
La scelta del ricorso alla "Grande Chambre", ha spiegato Tamburino, consente di avere margini più ampi per il completamento del processo di adeguamento del sistema carcerario che è al centro di grosse criticità. Restano comunque fermi, ha sottolineato il vertice del Dap, i principi ricordati dalla Corte dei diritti umani e i problemi di sovraffollamento delle carceri italiane: «Esistono dei limiti alla sanzione che stanno nella modalità con cui la si applica e fanno riferimento alla protezione del condannato, che è uno dei segnali di civiltà di un Paese e di un popolo». A rendere improbabile un passo indietro della Cedu, anche la persistenza dell’emergenza carcere in Italia: «Se si guarda ai 47 Stati europei, ha ammesso Tamburino, l’Italia è il secondo Paese europeo dopo la Serbia nel rapporto tra detenuti e numero di posti nelle carceri: la situazione è pesante».
Superata la soglia di allarme statistico: 130 presenze ogni 100 posti
L’Italia – ha specificato Tamburino – «non è sopra la media europea per tasso carcerario, ossia nel rapporto tra numero di detenuti e numero di abitanti. Il problema è la dotazione delle strutture carcerarie: dal 2008 si è superato il limite di allarme statistico che è di 130 presenze ogni 100 posti. E si può risolvere in tempi ragionevoli solo se si rispettano alcune condizioni». Dignità della persona e sentenze della Corte di Strasburgo, ha concluso, «impongono soluzioni e bisogna lavorare in due direzioni: aumento dei posti e calo della popolazione carceraria. Su quest’ultimo fronte, va registrato che da tre anni la situazione si è stabilizzata e dai 69.155 detenuti del novembre 2010 si è passati ai 65.701 di fine 2012, con un lento regresso dovuto alle misure che hanno favorito misure alternative e detenzione domiciliare» Quanto all’aumento dei posti «il piano carceri ha avuto un’accelerazione e consentirà 11.573 nuovi posti. Ma lavori appaltati non significa consegna dei lavori», ha sottolineato Tamburino, lamentando «ritardi spesso inaccettabili».
La censura dell’Ucpi: solo una tattica dilatoria, «ministrero incoerente»
Sorpresi per la scelta del governo i penalisti italiani (Ucpi), che in una nota ricordano come più volte negli ultimi mesi via Arenula abbia «riconosciuto che quella sentenza non faceva altro che fotografare una realtà». La scelta di impugnare la condanna della Cedu serve dunque «solo a guadagnare tempo, lo stesso tempo che in questi tre mesi non ha visto alcuna iniziativa che anche lontanamente potesse andare» nella direzione indicata dalla Corte dei diritti dell’Uomo. Quella del ministero è dunque solo una tattica dilatoria, «del tipo di quelle che vengono sempre attribuite a chi vuole semplicemente ritardare gli esiti dei processi. Il problema è che qui è lo Stato a metterla in pratica, e per di più su una materia come quella dei diritti fondamentali, che richiederebbe quanto meno un minimo di coerenza».
Fonte "Il Sole 24 ore"