“Nishida rincasò poco dopo l’ una continuando a chiedersi perché al giorno d’oggi la gente sembrasse avere così tanto bisogno di infilare dappertutto termini inglesi. Forse era un rifugio costruito sopra un inconsapevole senso di insicurezza: ostentavano conoscenza per nascondere ignoranza”.
E’ il pensiero che Tommaso Scotti, dottore di ricerca a Tokio, pone nella testa del personaggio principale del suo romanzo “L’ombrello dell’Imperatore”, edito lo scorso anno per i tipi della Mondadori su Licenza della Longanesi.
Il tema non ci è nuovo; ne abbiamo parlato sovente su questo foglio.
“Ignorante” non è un termine offensivo: questo “participio presente” usato come aggettivo indica solamente “una persona che ignora qualcosa”.
Non è una dramma; mai nessuno al mondo non è stato ignorante di qualcosa, alcuni di tanto, altri di poco. L’intera Umanità ignora cose importantissime, delle quali non verrà mai a conoscenza: chi siamo, perché siamo su questa terra e come ci siamo arrivati.
L’aforisma socratico continua a rappresentare, nonostante tutti i progressi della scienza, l’unico vero punto di partenza della intera storia della filosofia “Non so nulla: so solo di non sapere”.
Grave è invece “mascherare” l’ignoranza, sia perché lo si può fare facilmente, sia perché in ogni caso il suo procrastinarsi ingenera il “convincimento di non possederla”, cioè la presunzione!
Un recente rapporto di “Save The Children” dichiara che solo la metà dei quindicenni italiani comprende i testi che leggono (in italiano, ovviamente).
Una sintetica disamina di Francesco Provinciali, Direttore Didattico e Dirigente Ispettivo del Ministero dell’Istruzione, della Università e della Ricerca, ne evidenzia le cause nella “ facilitazione dei corsi di studio e di programma, progressivo abbandono dell’uso del corsivo e della scrittura manuale, enfasi dei test al posto del testo scritto, lenta espunzione della poesia, della musica e della storia dell’ arte , linguaggi corti e sincopati, sigle ed acronimi che prendono il posto della scrittura fluente, oblio della memoria come metodo di allenamento della mente, scomparsa dei dettati, sostituiti da cartelloni, diagrammi con frecce di richiamo e collegamento a schema aperto”.
Qualcuno potrebbe rimanerne anche felice, secondo la massima del “beati monoculi in terra caecorum”, ma la cosa, sottolinea Antonio Polito in un suo recente editoriale apparso sul “Corriere della Sera” , potrebbe essere ben più grave interessando addirittura il futuro della nostra democrazia.
Alla base di questa, infatti, come era solito sostenere il grande sociologo Ralph Dahrendorf, c’è il “suffragio universale” e questo è alimentato da una sfera pubblica che rappresenta “uno spazio di incontro tra soggetti liberi e con eguale diritto alla parola, i quali sottopongono al vaglio reciproco le loro idee e le loro opinioni espresse attraverso forme argomentative”.
In altre parole, perché si realizzi la democrazia, è necessario che ogni cittadino abbia la possibilità e la capacità di elaborare proprie idee e di convincere ad esse qualcun altro con la forza delle proprie argomentazioni. Se non esistesse questo presupposto la democrazia, che non può e non deve esaurirsi nel semplice “momento elettorale, diventerebbe una cosa vuota, facile preda di demagoghi, fanatici e tiranni”.
Come potrà avvenire questo se la metà dei nostri quindicenni di oggi non comprende i testi che legge? E di questo Antonio Polito ritrova le cause dirette nella organizzazione scolastica di oggi, quella che sostituisce alla “lettura” le immagini, i video, i grafici, i test, gli slogan, perché “diverso è il processo razionale che si mette in moto, diverso il mix tra ragione e intuizione, diverso lo stimolo alla riflessione”.
Un esempio pericoloso di quanto asserito temo si sia verificato proprio con il recente “flop” del Movimento5Stelle, primo partito in Italia alle elezioni del 2018, impietosamente frantumatosi nelle successive prove elettorali.
Un partito nato sull’onda di un generico qualunquismo, sulla scia di una opposizione a tutto e a tutti fondata solo sul grillino “vaffa’”, e dispensatore di disimpegnativi sussidi quali il “reddito di cittadinanza”, ha dimostrato, alla prova concreta dei fatti, tutta la sua pochezza “culturale”.
Prendere un “uomo della strada” e portarlo a gestire un Ministero non significa né democrazia, né egualitarismo: significa solo demagogia, i cui danni ricadranno inevitabilmente su tutti i cittadini.
Rifugiarsi dietro un “vaffa’” non significa esprimere dissenso ed opposizione: significa solo celarsi dietro un impulso pur comprensibile, ma rivelatore di tutta la propria abissale incultura, e non solo politica.
Si salvi chi può!
Claudio Gliottone