“Questo è il problema!” se volessimo dirla con Amleto. Premesso che “dipartita” solo eufemisticamente significa, e per traslato, trapasso, mentre nella sua accezione più comune significa commiato, distacco, partenza, allontanamento, non ce ne vogliano i protagonisti delle vicende che andiamo a raccontare, perché esse riguardano più di una persona e, forse, anche un intero sistema. Cominciamo. Nel 2018 fummo i soli ad evidenziare che la lista che aveva vinto le nostre elezioni comunali con larga maggioranza di voti era una lista solo contrabbandata come “civica”, ma nei fatti era mera espressione di un partito politico vero e proprio, uno dei pochi ancora organizzato quasi in maniera “sovietica”: il PD.
Infatti:
- Ad assemblare la lista, a darle il carisma programmatico ed a sostenerla era il solito “politburo” composto da ben noti elementi usi a far questo dai tempi del compianto On. Mancini, di democristiana memoria.
- Dal suo interno provenivano il candidato sindaco, cugino di primo grado di una rappresentante europea di esso, e molti altri camuffati candidati.
- Ad essere immediatamente nominato vice-sindaco, tra la sorpresa e lo sgomento di chi aveva ottenuto molte più preferenze di lui, fu uno dei più stretti collaboratori della cugina europarlamentare.
E non fummo Cassandre presaghe di sventure, ma semplicemente ragionammo politicamente quando concludemmo che, senza affatto conoscere la capacità o la successiva dimostrata incapacità dei suoi componenti, predicemmo che, proprio da questa mascherata presa in giro, sarebbero certo potuti derivare alla nostra città notevoli disagi. Dobbiamo riconoscere che il solo nostro torto fu di non averle previste della grandezza, numero, gravità ed espansione con le quali si sono manifestate; ma il dovere di aprire gli occhi ai nostri concittadini lo facemmo, restandone comunque inascoltati. Così come certamente molti membri del “politburo” non avevano previsto né messo in conto la effervescente platealità e lo sconfinato egocentrismo del capo di quella lista, avendone valutato solo l’aspetto e le capacità professionali, ma non quelle umane o politiche, come ha confessato, rendendolo pubblico su Facebook, uno dei maggiori membri organizzatori, esprimendo un non so fino a che punto credibile “pentimento”. Almeno, e bisogna riconoscerlo, ha avuto il coraggio di ammettere il suo errore: tutti gli altri tacciono bellamente, sornioni come sempre. Orbene la sostanziale differenza tra una lista “civica” ed una di “partito” è che la prima non è soggetta a vincoli e a superiori interessi del partito, ai quali è giocoforza sottostare, ma solo a vincoli amministrativi se si ha la onestà intellettuale di voler pensare “esclusivamente” alle necessità dei propri concittadini: va da sé che in questa qualifica “civica” non esistono facili spazi di carrierismo. Perché in questo caso, per far carriera senza brigare per un “partito” o con un partito, c’è un solo modo: fare il sindaco possedendo, e dimostrando di possedere, degli enormi e poliedrici attributi da riempire il tendone di un circo. E non ci pare sia il nostro caso. Allora ci si barcamena a destra e a manca, si gioca su più tavoli, spesso in contrasto tra loro, senza nemmeno possedere la “cazzimma” di scegliere quelli giusti per la città o di tacere in attesa di tempi migliori; ma la platealità ed il mito di sé stesso non lo permettono. Ci si avvicina a Tizio, ci si avvicina a Caio, messi alle strette si dribblano le cose con una candidatura posticcia e di facciata alla Regione e via di questo passo. Poi i nodi vengono al pettine, e le “giarretelle” vanno in frantumi. Si cercano rimedi che sono sovente peggiori del male, perché il tatto, la eleganza, il “savoir faire” non ci appartengono, abituati a fare di ogni cosa, anche strettamente personale, un argomento da palcoscenico, o da facebook. Alla fine la catastrofe riguarda tutti: gli stretti collaboratori; gli amministratori di maggioranza e quelli di minoranza, legittimati secondo loro a cambiar casacca in nome di una appartenenza allo stesso partito e non ad un’altra lista “civica” con la quale sono stati eletti in opposizione; gli strateghi che hanno fatto una magra figura; qualche altro partito, ideologicamente agli antipodi, che ha ingenuamente e stupidamente creduto alla “civicità” (mi si perdoni il neologismo) del raggruppamento dei vincitori e lo ha appoggiato. Alla fine riguarda noi tutti teanesi, che abbiamo fatto e continuiamo a fare la parte dei cretinetti e che retrocediamo giorno per giorno nei fatti e nella stima e rispetto da parte degli altri paesi. Ancora mi sovviene il dubitante Amleto : “C’è del marcio, in Danimarca…”. Certo, ma in Danimarca! E, come diceva Totò, dopo averle prese di santa ragione, “e che mi frega a me: mica sono Pasquale”!!!!!
Claudio Gliottone