O sarà sempre un’iperbole che non avrà mai risposta esaustiva? Abbiamo quasi smesso del tutto di chiedercelo, tant’è che l’Occidente vive di logica formale dimenticando che tutto ciò che esiste, in quanto esiste, ha anche una connotazione ontologica .Non è uno slittamento innocente, non sono gli usi e costumi che cambiano, serve a dare una connotazione meramente utilitaristica ad ogni pensiero ad ogni dire, che senza dialettica ha facile accesso a mostrarsi vero. Se il logico schiaccia l’ontologico, la fisica si libera della metafisica, l’economico si libera del politico, la tecnica si libera dell’uomo. C‘è una steresi di una violenza inaudita, ad opera di una pretesa assurda dell’intelletto che vuole isolare un continuum per affermarsi come concretezza,come pragmatismo spinto. I modelli aziendali, mercatistici, sono entrati a gamba tesa come riferimenti paradigmatici della vita stessa dell’uomo.Ma è possibile applicare modelli di performatività alla vita? E’ possibile essere nella vita in competizione perenne con tutti gli altri ed anche con noi stessi? Sono i modelli che servono a farci vincere o perdere, ma cosa si vince e cosa si perde? Luigi Einaudi nel 1924 in un articolo che titola “la bellezza della lotta” dice che la natura umana, alla lunga, ripugna il quieto vivere, diventa la mortificazione dello spirito. La quiete è morte in nome del fare umano, è il travaglio lo spirito assoluto. Sono passati ormai 20 anni dalle critiche di Max Weber al capitalismo, sembra essere quello il momento di rivendicare un’etica della competizione, nonostante weber avesse mostrato come lo spirito competitivo ci faccia poi vivere in una gabbia d’acciaio. Perché vivere per lavorare non è come lavorare per vivere ,eppure si aprirà una corsia preferenziale a questo moderno modus operandi , perché l’intelletto astratto non interroga la ragione : il negativo fuori dialettica ha gioco facile a passare per positivo ,non ha contraddittorio. L’accumulo che deriva dall’iperproduzione capitalistica domina l’uomo, rendendolo superfluo. Certo l’unico a dirlo è papa Francesco ,nessun altro si aggiunge al coro. La sua è una voce fuori campo, parla di cultura dello scarto, di come la competizione scarti pezzi di umanità. Dietro l’etica della competizione einaudiana c’è la concezione antropologica per cui l’uomo è colui che tende sistematicamente ad elevarsi, provando a raggiungere la perfezione ( già in Dante c’è questa ricerca all’elevazione ,anche se, in rispetto della cultura greca ,Dante non riuscirà nell’impresa titanica senza l’aiuto di Beatrice, la grazia divina ). Anche Platone e Aristotele parlano di perfezionismo, ma per loro è lo scopo dell’etica, è l’animo umano ad aver bisogno di gratificazione, non il conto il banca. Con l’etica della competizione io devo perfezionarmi in una performatività che mi spinge ad andare oltre i miei limiti. Oggi per perfezionismo si intende la massimizzazione dell’eccellenza umana, c’è la valorizzazione di alcuni a discapito dei più scarsi. E’ qualcosa che dunque amplifica le differenze, alla faccia della giustizia sociale. Siamo usciti dalla gabbia d’acciaio weberiana con gli ideali dell’autonomia e dell’autoaffermazione, ma un conto è dire progetto la vita con certi valori e un conto è dire faccio tutto quello che mi pare imponendo i miei valori, i miei criteri assiologici. In questo modo la realizzazione è tutta verso il successo pubblico, sociale, che sicuramente sancisce la mia capacità di affermarmi e il benessere che ne consegue, spostando però il baricentro verso una meritocrazia che non è come sembra essere: giustizia sociale. Nelle nostre precedenti officine abbiamo parlato molto di merito , di cosa sia, di chi merita e cosa merita il meritevole. Ci chiedevamo se fosse legato allo sforzo compiuto o al risultato . Cosa vuol dire vincere o perdere nella vita? Chi vince cosa? E chi perde cosa?
E se tante volte dietro un successo pubblico ci fosse un fallimento esistenziale?
Lo scacco dell’esistenza? C’è un successo legato all’apparire mentre l’essere si svuota e scivola via? O c’è qualcosa del nostro essere che non si può più esprimere perché è l’apparire sociale che determina la nostra vita, fino a cancellare il nostro vero Io? Quel sogno liberale dell’autonomia e dell’autoaffermazione si innestava in un concepirsi esseri pensanti, desideranti e agenti , capaci di fare le proprie scelte e di saperle giustificare : cos’è se non la radice della responsabilità, se non l’asse portante della filosofia morale, quella che sfociava nel comunitarismo. Esasperando le competenze si esce dalla logica dell’autonomia dell’essere pensante, c’è uno slittamento verso il culto della performance. La competitività sbaraglia il sogno liberale, perché progressivamente sposta l’attenzione dal saper fare al saper essere. Basta ascoltare il logos diceva Eraclito,che non è il senso comune ma è proprio l’andare oltre esso; a farlo ci si imbatte nella parola chiave del nostro tempo : “gestione”. Gestire è amministrare, controllare ; è una parola il cui uso è riferito ai beni, alle risorse, agli interessi, ma si farà velocemente strada nel mondo della vita. Sarò io a dovermi gestire, sarà la mia vita che andrà gestita. Già parlare di risorse umane era un ossimoro, una risorsa è una cosa per definizione, non può essere umana. Poi un secondo slittamento verso la gestione dell’umano stesso. Gestire la mia forma fisica, la mia immagine, il mio stress, le mie emozioni, anche all’interno della relazione affettiva, come se fosse possibile gestire ciò che è altro da me. Compito questo solo apparentemente arduo, perché conta sull’aiuto del grande alleato di tutti i possibili cambiamenti ,anche quelli antropologici muovono da lì: il linguaggio. Tutto inizia e tutto finisce con il linguaggio, anche se non è gestendo il linguaggio che io posso veramente controllare tutte le emozioni. Siamo inondati da una propaganda incessante, siamo circondati da coach con veri e propri ricettari per la buona riuscita della nostra vita . Come se dipendesse esclusivamente da noi, o da quanto siamo fedeli nel seguire le ricette e nel dosare gli ingredienti. E’ un vero e proprio delirio di onnipotenza ,perché non è vero che potere e volere. C’è una resistenza che io non posso controllare, non è vero che la buona riuscita di quella ricetta dipende esclusivamente da me, dalla mia bravura e da quanto io sappia condividere i comportamenti di chi ha successo. La verità del soggetto emerge proprio là dove si perde il filo logico, là dove si balbetta, dove c’è il lapsus, dove c’è l’inciampo, la caduta : è lì che siamo noi. Non dove c’è il controllo, dove c’è la ragione, dove c’è la gestione. Il sistema sembra dire che siamo gli unici responsabili della vita che abbiamo scelto: i miei averi, la ,mia vita affettiva, quella professionale e persino la salute, è opera mia e di nessun altro. Siamo caricati da un peso che non è responsabilità ma è colpevolizzazione. Quel sogno liberale dell’essere pensante non ha più nulla a che vedere con questo. Non è vero che è tutto uguale, ci sono cose che vanno fatte e cose che non vanno fatte; se sposto tutto sull’essere io codifico il dover essere: è lì che si fa splash , successo pubblico ma scacco dell’esistenza . Il primo teorico sul tema dell’autonomia è stato Kant. In “Cos’è l’Illuminismo “ ,una delle poche opere di Kant con un linguaggio accessibile, Kant scrive” ogni essere umano deve poter pensare da se, è un crimine impedire di pensare con la propria testa “. L’illuminismo per Kant è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità , è quindi l’uso della propria testa ,il focus della filosofia kantiana è l’IO penso, come ipostasi della conoscenza . Lo dice l’illuminista più illustre di sempre ,al cui cospetto tutta la letteratura relativa a quella ideologia resta epigonale. La vera autonomia è avere il coraggio di servirsi del proprio intelletto, per cui oggi essa è svuotata dal di dentro, non siamo più noi a fissare gli obiettivi, i percorsi sono guidati, i traguardi sono suggeriti : perché è lì che c’è il successo, è lì che si vince, è lì che si taglia il traguardo. Si produce un vero e proprio paradosso, sii te stesso, sii autonomo, poi però ti spiego io cosa inseguire, come inserirti ( tanto poi se non riesci è colpa tua). Se mi si induce a fare qualcosa giocando col mio desiderio io lo rivendico come una mia volontà,come una mia scelta,non lo leggo più il suggerimento. La mia vera autonomia si svuota così di ogni significato. La verità è che siamo servi volontari, ma questa è una storia vecchia quanto lo è il platonismo . Sicuramente il successo personale è qualcosa a cui gli uomini hanno guardato da sempre, ma è veramente da considerarsi tale qualcosa che ci svuota del nostro stesso essere? Facendoci accumulare gesti che ci svuotano persino di umanità? La gabbia d’acciaio weberiana si sarà pure trasformata in un materiale aulico, ma sempre di gabbia si tratta. Quando sono prigioniera di disturbi alimentari, di una non accettazione di me stessa, di un non sentirmi adeguata, sono in una gabbia dorata, perché è una mia scelta il rifiuto del cibo, o quello dello specchio , ma sempre vittima resto. Non si esce da lì e il motivo è sempre lo stesso, lo portiamo dentro da sempre, da quando siamo al mondo, tanto da non averne contezza : se riesco ad essere perfetto sarò accettato, se riesco ad essere adeguato sarò amato come ho sempre desiderato. E’ quel bisogno di amore atavico che ci fa fare tutto, che ci detta le priorità. A quell’etica della competizione di matrice einaudiana andrebbe contrapposta un’etica dell’accettazione, quella di Albert Camus , grande filosofo ed anche nobel della letteratura ” solo l’ozio è un valore morale, risulta fatale solo ai mediocri“. Il compito della filosofia è portare alla luce i significati di fondo e mostrarne l’autenticità ,la radicalità; gli slittamenti argomentativi non sono cose di poco conto, arrivano a cambiare la stessa antropologia umana, è proprio come al cinema ,non c’è un solo film di cui non sia spoilerato il finale ma noi andiamo lo stesso facendo finta di non saperlo o magari sperando in un finale a sorpresa solo per noi. C’è dietro una grande manipolazione a cui non possiamo sfuggire , perché scoprire la trappola non significa poterla evitare . Il coach è così sicuro di arrivare al mio cuore che gli basta parlarmi, usando le parole giuste, per convincermi. Anche quando la mia ragione confuta i suoi sofismi,essa non riesce poi a sbarazzarsene, perché il mio cuore vuole credere che lui abbia ragione, il mio cuore desidera che sia così, arrivando a dar torto a quel senso di pericolo,anche se avvertito con molta pregnanza. E’ ingenuo illudersi di potersi sbarazzare del coach con facilità, ed è anche pericoloso. Abbiamo chiara la consapevolezza che la nostra vita sia altro, ma non basta a non farci scivolare verso quel desiderio che ci abita e lo fa necessariamente per evitare lo scacco di quel lutto primordiale di cui tutti noi siamo fatti . La vita umana è mancanza,cercheremo sempre la gratificazione di quella pienezza seppur consapevoli dell’incolmabilità della distanza . La coerenza sembra essere quell’impossibile a cui vale la pena tendere se siamo ancora attratti da un orizzonte di senso possibile.
La logica formale è solo una parte del fondamento, non è fondamentale. Cit. EMANUELE SEVERINO