E’ il titolo devotamente provocatorio di un libro di cui al momento non rammento l’autore. La forza di tanta devozione si dispiega nei giorni della festa del Santo in un interminabile pellegrinaggio al Santuario e sfocia in quella manifestazione di oceanica religiosità popolare che è la processione del dodici giugno. Sino a pochi anni si snodava chilometrica la sera dell’8 giugno e segnava la conclusione della fiera, negli ultimi tempi è stato ripristinato l’antico costume di realizzarla la vigilia della festa.
Migliaia di persone, moltissime per voto a piedi scalzi o con ciclopici candeloni tra le braccia, seguono la statua che viene gelosamente trasportata dai fedeli di Casi fino al ponte e da quelli di Teano per tutto il percorso cittadino, per essere poi riconsegnata al ritorno sul ponte dello stesso borgo. Ad essa partecipavano, in segno di particolare devozione, fino a pochissimi anni addietro il seminario diocesano e il capitolo cattedrale, che aspettavano in piazza Duomo il passaggio della processione. Allora il priore , salutati i canonici, si toglieva la stola e la passava come testimone al decano del capitolo che la indossava sulle insegne proprie del suo rango (come già ha diffusamente descritto, con impareggiabile stile scrittorio, il presidente-bis (di una delle 2 pro locos, Prof. De Simone)
È ancora usanza, che i ‘nuovi tempi’ difficilmente potranno eliminare, accompagnare la processione col canto di un antico inno al Santo in dialetto che non trova molta corrispondenza in quello moderno. Particolarmente i fedeli di Casi, devoti al Santo più di ogni altra comunità parrocchiale, guidano il canto sull’antico motivo tramandato oralmente: O Sant’Antoniu, vergine sacratu, la c(u)rona re Gesù la puorti ‘ncapu. Te la runau la vergine Maria, facce la ràzzia Sant’Antoniu miu.
Anticamente, come riferisce l’impareggiabile Pezzulli sulla scorta di un manoscritto redatto dal sacerdote don Girolamo Razzina, il busto argenteo di S. Antonio fuso nel 1680 veniva portato processionalmente dalla cattedrale al santuario in occasione della festa di giugno, con l’intervento anche dei capitoli della cattedrale e delle collegiate della città. Perché a te Antonio? Spesso fino agli anni sessanta del secolo scorso, a ogni siccità si tenevano processioni rotazionali di S. Antonio. Masse di contadini, in pena per il pericolo di perdere il raccolto, accorreva al santuario a propiziare l’intercessione del Santo. La statua veniva quindi portata in processione e trasferita in cattedrale per essere esposta, insieme al busto argenteo di S. Paride, alla venerazione dei fedeli che assistevano imploranti a messe votive e riti propiziatori. La grande diffusione dei sistemi d’irrigazione artificiale ha fatto sparire questa tradizione, ma non è venuto meno il rischio di tante altre nuove calamità, talvolta provocate dalla stessa mano dell’uomo.
Le origini della fiera di S. Antonio sono connesse ai fattori di simili mercati zootecnici. Assunse particolare importanza per il commercio degli equini nel XIX secolo e tale importanza conservò fino all’ultimo dopoguerra quando lo sviluppo della motorizzazione ne segnò l’inesorabile declino. Già nei secoli addietro era così frequentata e ricca di affari che veniva eletto un maestro di fiera che fungeva da coordinatore. Per più giorni vi accorreva tanta gente che per assicurare l’ordine pubblico la guardia urbana e la guardia nazionale prima e i reali carabinieri poi, insediavano sulla collina, in comoda baracca, un posto fisso, antenato delle moderne stazioni mobili. La collina si ricopriva così di baracche nelle quali improvvisate, succulente, osterie offrivano pietanze calde, il rituale baccalà cucinato in tutte le salse, le anguille fritte, le frittelle con i fiori di zucca e l’immancabile pesce marinato condito con lo zafferano. La fiera, così , assumeva in un variopinto diorama di colori, suoni, sapori, frastuoni, l’aspetto fantasmagorico di un mercato levantino, di un suq arabo.
Nella parte bassa del colle, sul versante meridionale, colmato vent’anni fa per realizzare un deturpante piazzale, venivano alzati recinti dove per giorni sostavano gli equini offerti in vendita, al cui servizio era posto un enorme abbeveratoio in pietra. Due giorni erano riservati al commercio di bovini, suini e caprini. Il giorno otto, al suono delle campane che annunziavano l’uscita della statua dalla chiesa per la processione, si concludevano le contrattazioni e cominciava la festa. Da pochi anni si è tentato di dare nuovo impulso alla fiera inserendovi nuovi aspetti legati principalmente all’agricoltura, ma l’iniziativa trova ostacolo nel pullulare di simili mercati in tanti altri centri vicini. La festa invece ha conservato nel complesso quell’aspetto di grande sagra, densa di odori, suoni, colori, che la diversifica dalle consuete feste patronali, dove fuochi pirotecnici e concertini cedono il passo ai meno consumistici divertimenti delle giostre e delle frittelle. Ma quello che colpisce di più è , fin da ore antelucane, la formicolante ascesa al colle di pellegrini, talvolta alieni da ogni pratica di religione, che vengono a implorare l’intercessione del Santo, a invocare e spesso a ritrovare la Pace e il Bene.
Giulio De Monaco