Sì: senza nulla a pretendere! Lo si comprenda da subito.
Li avevamo lasciati in fuga da Teano, ricordate? Avevano raccolto le loro cose, la tiara, la cotta, la mitria, e persino l’aureola, ed erano fuggiti costernati da un paese che li ospitava da mille e seicento anni e che mai era stato così invivibile come negli ultimi tre anni; e loro erano per tanti motivi cittadini teanesi a tutti gli effetti, anche se mai gratificati di alcuna cittadinanza d’onore!
Il loro altissimo senso civico li aveva costretti a tornare, Cosimo e Damiano, a ridosso delle elezioni, quelle da poco concluse.
Non che brigassero per le cose umane: loro non dipendevano dalla Chiesa degli uomini, pur talvolta incline ad interessarsi fin troppo di cose prettamente laiche, ma erano Santi e la loro “amministrazione” era celeste.
Il sentirsi tanto teanesi, però, li induceva ad occuparsi anche di “politica”, ma sempre e soltanto per ricavarne il maggior utile per tutto il paese, indistintamente.
Avevano partecipato, non visti, ad infinite riunioni di destra, di sinistra, di centro, di sopra e di sotto ed avevano visto persone che la volevano cotta ed altre che la volevano cruda, ma nemmeno l’ombra di chi la volesse democraticamente “appetibile” per gli uni e gli altri.
Erano perciò sfiniti, quella notte inconcludente come tutte le altre che l’avevano preceduta e che segnava la chiusura della campagna elettorale.
Crollarono quindi in un sonno profondissimo in quella chiesetta afosa e polverosa di via Nicola Gigli ed i loro russii, intersecandosi e modulandosi reciprocamente come a suon di musica, parevano esprimere ora un glorioso peana, ora una pietosa geremiade.
Allo improvviso, come da consumato copione, risuonò la voce sibilante di Cosimo.
“Damià, Damià, scetate; sapessi cosa mi son sognato”
“Cosimoooo! Ma è possibile ca tu te suonne sempe cacche cosa?” biascicò Damiano con voce impastata da un sonno indeciso ad abbandonarlo.
“No, nooo, Chesta è na’ cosa bella. Assai bella. Sient’, sient’:
Ho sognato che stavamo un sacco di gente in Piazza San Francesco, sotto al Municipio. All’improvviso sono risuonate le campane della chiesa, si è spalancato il balcone del comune ed è comparso il “gran ciambellano” Mar(cin)kus, ha fatto un cenno di silenzio, ha messo le mani sul cinturone… no, no mi sto confondendo con qualche altro, questo non aveva il cinturone, ed ha iniziato a parlare a gran voce: “Habemus papam: excellentissimum atque eminentissimum cardinalem…(il nome non l’ho capito bene) qui sibi imposuit nomen Johannes Primus” e….”
“e che? Cosimì. Quello di Giovanni papa ce ne sono stati almeno ventitrè, più un antipapa e due col doppio nome Giovanni-Paolo; comme è sciuto stu “primus”.
“Siiiii, Damià, perché con lui comincia un’altra lunga dinastia ed allora Giovanni Ventiquattresimo non andava bene; come non andava bene il IV a Ferdinando di Borbone che lo trasformò in I dopo la Restaurazione imposta dal Congresso di Vienna nel 1816. Accussì è tutta n’ata cosa, si capisce. Mi sono spiegato, Damià”? E se cominciamo da 24 dove andiamo a finire! Ci confondiamo”.
“Noo, tranquillo Cosimo, non ci confondiamo. Tranquillo, tanto è semp’ a stessa cosa: ci siamo abituati. Ma poi cos’hai mangiato ieri sera: un chilo di peperoni? O ti sei bevuto un bottiglione di aglianico? Hai ammescat’ il Papa con il Sindaco, il ciambellano con il cardinale protodiacono, il fischio con il fiasco! Ma questo che cosa è? E vogliamo essere un poco seri su queste cose?”.
“Si, Si: io sono serio. Chill’ era nu’ suonno Damià… pa’ ‘mmore e’ Ddio: era nu’ suonn’”.
“Accuminciamm’ buono Cosimì, Accuminciamm proprio buon’. Duorme, ch’è meglio”.
“E durmimm’ Damià… tant’ avimme durmito fino a mmo’! Santa notte”.
“Santa notte, Cosimì”.
Claudio Gliottone