Partiamo da un’immagine che conosciamo tutti, riprodotta in ogni foggia e grandezza, tanto da essere un retaggio a prescindere dall’attenzione con cui ognuno di noi si sia soffermato a guardarla.
E’ forse l’immagine che più di tutte rappresenta, perlomeno socialmente, l’intero ‘900. Come per ogni identità quel che è noto non è conosciuto, dopo Hegel non possiamo non saperlo, infatti cosa è l’hegelismo se non il tentativo di far conoscere il noto. E’ il ritratto della scena più iconografica della società del secolo scorso: Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, che, forse la generazione dopo la nostra è la prima della storia contemporanea che non ha avuto modo di vedere, appeso in qualsiasi corridoio di un edificio pubblico. Nell’immagine irrompe, con orgoglio e dignità, una classe sociale che sa di esserlo. A cominciare dalla postura fiera dei personaggi ritratti. E’ una classe in cui ci si sa membri, in cui emerge un noi. Al centro dell’olio su tela, realizzato nel 1901, c’è una donna con un bambino in braccio, simbolo della famiglia, il vero focus della vita per il proletariato. L’opera dice che c’è una classe sociale che va verso la propria liberazione a testa alta, con dignità e consapevolezza. Forte della conoscenza della propria identità. Il ‘900, considerato il secolo delle guerre e dei totalitarismi è, per la verità, anche il secolo delle conquiste sociali, dei diritti civili, della conquista del lavoro da parte delle classi subalterne. La retorica del capitale vincente si avvale del “si è vissuti al di sopra delle nostre possibilità “, chiedendoci di rinunciare a diritti elevati a rango di privilegi, mentre i veri privilegi diventano diritti acquisiti da una certa porzione di umanità. Il mantra è l’intrasformabilità del sistema capitalistico, la sua intrascendibilità, non ci resta che adeguarci ad esso. E’ facile da sostenere: chi non sa, non può capire, e chi non capisce non sa di non sapere; Sapere di non sapere è già un sapere, perché spinge alla ricerca del contenuto ,della mancanza. Nel 2003 Massimo Bartolini, omaggia Pellizzi con una versione moderna de “ Il Quarto Stato “, dove i membri fieri del proletariato d’inizio 900, lasciano posto ad individui isolati, ritratti a terra, in ginocchio, separati tra di loro come monadi, con lo sguardo rivolto al futuro, privo di qualsiasi possibile utopia. Una massa seriale di individui in solitudine. Non hanno più coscienza di classe, non sanno più di esserlo. Non è più una classe omogenea di identità con molto in comune. Non si chiama più proletariato ma precariato: ne fanno parte le badanti, ma anche i ricercatori universitari, tutti fermi in un presente monco di futuro. Un presente senza prospettive come fa a essere un presente. Pasolini più di tutti parlava del tempo delle vuote piazze e delle oscurate officine. La tesi che il capitale ci avrebbe liberati dal lavoro pesante non è sostenibile. E’ vero che il concetto di lavoro ha una sua storia che si risemantizza nel corso dei secoli. Per gli antichi greci, non era certo la funzione primaria il lavoro. La filosofia ,infatti come scienza teoretica, ha la sua grandezza nella non utilità, per i greci era da lì che poteva venire la vera grandezza degli uomini. Tutto ciò che noi crediamo essere nostri concetti , nostri modi di pensare, vengono in realtà dalla filosofia e dalle sue teoresi. Fino a Cartesio l’uomo è soprattutto res cogitans più di res extensa,è un uomo che da solo pensa per arrivare al metodo. Aristotele valorizza la filosofia come scienza teoretica, il suo valore viene proprio dal fatto che si sgancia dalle categorie dell’utile. Il Dio Aristotelico, il motore immobile, che muove senza essere mosso, cos’è se non la metafora dell’attività del filosofo. Nel Timeo di Platone, il divino è una sorta di artigiano, di demiurgo. Sarà il cristianesimo che è postfilosofico ad introdurre un Dio produttore, che lavora, che crea. Il lavoro come momento antropogenico arriva con John Locke: l’uomo è tale nella misura in cui si obietta nel suo lavoro, non più perché pensa , come l’uomo cartesiano. Con Locke l’uomo si appropria della realtà attraverso il lavoro. E’ da lì che si comincia a scrivere l’ontologia del lavoro. In Locke non c’è il Noi hegeliano , l’uomo è già atomista. Per Hegel invece, il lavoro è sempre in funzione ad un rapporto sociale, non per niente Marx muove da lì. Nella filosofia hegeliana, il lavoro non è solo un obiettivo per realizzare l’uomo, ma è soprattutto emancipazione . E’ già chiaro che il lavoro è antagonismo; la dialettica hegeliana servo-padrone, rovescia la tradizione greca , per cui libero era chi non lavorava . In Hegel col lavoro si acquistano competenze, è il lavoratore il vero signore; paradossalmente è il signore che ha bisogno del servo. In questo capovolgimento c’è un passaggio di una potenza intellettuale enorme. Hegel viene da Haiti, dalla rivoluzione francese( la sua casa fu saccheggiata durante la battaglia di Jena): i moti rivoluzionari ripetevano che il mondo moderno genera lavoro e miseria, produce ricchezza ma la nega a una parte di società che la pone in essere . Cosa c’è di più attuale? Marx proietta la dialettica più famosa di Hegel nello scenario della lotta di classe. Per Marx emancipare il lavoro da una funzione antropogenica , fa l’uomo più del logos, la coscienza dell’uomo, è meno originaria del lavoro, l’uomo è tale nella misura in cui lavora. La coscienza giunge a se stessa tramite il lavoro. I morti dominano i vivi, scriverà Marx nel Capitale. Le chiavi di lettura de “ Il Capitale “ sono tante, è un’opera titanica. Per molti versi è anche un romanzo gotico, così come Frankenstein domina l’uomo che lo ha creato, il capitale signoreggia sull’umanità che lo ha posto in essere. Dobbiamo pensare che nulla è inemendabile, se lo ha creato l’uomo è l’uomo a potersene disfare. E’ solo una realtà ad alto tasso ideologico. Solo lo sguardo idealistico può aiutarci a vedere questo. Invece siamo andati verso un crollo dei diritti sociali, verso la desindacalizzazione del lavoro. Le battaglie del sindacato non fanno più arrabbiare i padroni, ma quelli che dovrebbero proteggere. La classe lavoratrice è stata resa precaria, flessibile, sono stati spezzati progetti di vita. SI tende a privatizzare tutto ciò che serviva a garantire i più deboli: l’istruzione pubblica, la sanità(è un’idea partita da lontano; già Manzoni diceva” se i figli dei contadini studiano chi lavorerà i nostri campi?”). Il welfarismo si è spostato a favore di banche e di signori dell’alta finanza, il patto tacito dice : “ gestite la religione, l’ambiente ma non toccate il lavoro “. La teologia del campus universitario americano, fa sì che gli intellettuali siano devoti al dio mercato con fede inconcussa. Tutto rappresenta il primato dell’economia sull’uomo, non c’è istituzione che vada in direzione diversa, la stessa Europa,di cui non possiamo più fare a meno in un mondo globalizzato, esiste solo come Banca Centrale ,il suo linguaggio è quello dello spread e dell’austerity. Come faceva Platone a sapere che da quella caverna non saremmo mai usciti? Forse perché si sa di stare in una caverna solo se si è stati almeno una volta fuori? Il sacrificio di Socrate non è stato ancora rivendicato, e se è per quello, non lo è stato neanche quello di Gesù. La società liquida si fa mondo, saturando tutti gli spazi, colonizzando le nostre coscienze ,trasformandoci in capitale umano . Se tutto è ridotto a sopravvivenza l’uomo non sogna più e neanche sa più di poterlo fare.
ANNA FERRARO
Avevamo una forza, uno slancio, un desiderio di cambiare il mondo. Ognuno di noi con questo slancio era più di se stesso. Era come essere due persone in una. C ‘era il senso di appartenenza ad una razza, che voleva spiccare il volo . No ,niente rimpianti, forse non eravamo capaci di volare come ipotetici gabbiani. Ma ora? Ora l’uomo è INSERITO : è inserito nel contesto sociale, nel lavoro, negli ambienti che contano, attraversando lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana. Non è più ipotetico gabbiano, non ha neanche più l’intenzione del volo, di quel sogno ormai rattrappito. Ne rimangono due miserie in un corpo solo.
Cit. Giorgio Gaber.