Si incomincia a prestare attenzione all’abissale impotenza della civiltà della potenza. Ma chi se ne preoccupa poi veramente? L’Occidente è una nave che affonda dove tutti ignorano la falla e lavorano assiduamente per rendere sempre più comoda la navigazione. Il talassico movimento delle onde sembra bastare. In nome di quella comodità gli individui sono sempre meno onesti e anche meno sapienti da non poter più neanche desiderare ciò di cui non hanno nemmeno più contezza. E’ certamente una visione che ben si addice all’uomo moderno robinsoniano, ma questa era stata già una preoccupazione di Platone, che nel Simposio mostra apprensione per l’umanità del suo tempo, che avulsa dalla consapevolezza dell’inòpia della sua onestà intellettuale, sembra essere a sè stessa degna di stima, meritevole. Le parole contano ma conta anche il modo in cui vengono abitate. Si parla tanto di merito in questi giorni, in un Paese dove ognuno di noi porta tatuato sulla sua pelle il marchio dell’ingiustizia scolastica (quasi sempre la prima forma di sopruso che subiamo nella vita) e non solo. E’ come rivedere un film già visto, è come risentire quel sapore amaro della scritta cubitale, che troneggia in ogni aula di giustizia:” LA LEGGE E’ UGUALE PER TUTTI “. Se lo fosse veramente perché mai avremmo dovuto scriverlo, la verità assoluta è anapodittica, non la puoi dimostrare; in quale calendario è scritto che all’indomani il sole risorgerà per tutti, è la logica formale a mostrarne la contraddizione. Il merito, per statuto concettuale, fa problema, perché è riconoscere una virtù altrui; in una società in cui l’individualismo è prassi, le uniche virtù attenzionate possono essere solo le proprie. Il nesso necessario tra giustizia e uguaglianza riesce in realtà a stare solo in potenza mai in atto, fino ad essere solo una possibilità non una certezza. Basta veramente cambiare nome a un ministero perché quella possibilità diventi necessità? Giustizia e uguaglianza spesso sono addirittura in antitesi, l’omologazione non ha certo cancellato le differenze sociali, anzi l’unico divario percepito è quello economico, non certo quello culturale. La retorica sui diritti civili è stata usata per far sparire quelli sociali. Continuiamo a scrivere che la cultura sia il vero ascensore sociale, ma è più una speranza che un reale riscontro. La nostra scuola è fin troppo sbilanciata verso una logica delle competenze, una scuola che non promuove lo sviluppo delle diverse abilità, delle diverse attitudini, di che tipo di merito può essere il volano? Il merito scolastico è sempre servito a premiare I MIGLIORI, quelli che già partivano bene, e ad ignorare I PEGGIORI, i più deboli, i più disagiati. Una scuola che perde i ragazzi difficili non è più una scuola, diceva Don Milani, somiglia più a un ospedale che cura i sani e respinge i malati. L’ambiente d’origine è fondante, il Via non vede tutti allo stesso nastro di partenza, ci sono famiglie molto meglio attrezzate di altre, sia culturalmente che affettivamente, non è decente liberarsi con facilità dei ragazzi difficili, equivale a dire che la scuola è giusta e i ragazzi sono sbagliati. E’ questa la scuola che dovrebbe riconoscere il merito? Le stesse università sono più luoghi di potere che di sapere, sarà mezzo secolo che i professori scelgono gli allievi di minor prestigio, per evitare che gli facciano ombra, è da diverse generazioni che si parla di fuga di cervelli. Esiodo dice che c’è un’invidia produttiva, perché feconda, che mi fa emulare il bravo, e un’invidia negativa che riconosce ma nega anche il merito, allo stesso tempo, perché di fatto lo sminuisce, lo svilisce, lo mortifica. L’uomo da sempre si misura con la giustizia sociale. Le armi di Achille,dopo la sua morte, vanno ad Odìsseo e non ad Aiace, che era pur sempre il guerriero più valoroso dopo Achille ed avrebbe meritato quelle armi a pieno titolo. E’ questo il primo non riconoscimento del merito nella storia dell’umanità. Omero molto prima del gran tempo (l’avvento filosofico) tematizza tutto ciò che ha traccia umana nei due grandi poemi (l’Iliade e l’Odissea) che Simon Weil pone a fondamento della civiltà umana. Aiace mal sopporterà l’ingiustizia subita, arriverà a togliersi la vita. E’ così che comincia la storia del merito umano: con la figura del mancato riconoscimento, e con la giustizia come possibilità perduta. Ma il merito cosa dovrebbe essere: il risultato che si raggiunge? Oppure tutti gli sforzi che vengono fatti per raggiungerlo, anche laddove non ci si riesce? Quando si parla di merito si rischia di annullare tutte le differenze che tutti ci portiamo dietro: il luogo dove si nasce, la famiglia, le abilità ma anche le disabilità e non per ultimo l’elemento fortuna che ha sempre un impatto molto forte sui risultati che intendiamo raggiungere. Cos’è a pesare di più, il talento o l’impegno? O a parità d’impegno va tenuto conto di chi parte da realtà meno fortunate? Come facciamo a credere al merito, da noi è sempre stato di chi conosce qualcuno non di chi conosce qualcosa. Gli stessi intellettuali oggi sono un gruppo sociale dominato dalla classe dominante, che non si impegna più contro il negativo, ma fanno da comunicatori alle ideologie compatibili col sistema. Il negativo del negativo, sempre negativo resta. E’ dal 1989 che il pensiero postmoderno del capitalismo trionfante sembra essere insuperabile. La stessa filosofia ha scelto di stare dalla parte del potere, diventando il luogo del rischio assoluto, fino a poter essere l’apologetica dell’esistenza. Questa realtà irrazionale è presentata come il solo mondo possibile, da accettare con disincantamento, come necessità da sopportare. Quando la filosofia scade in queste forme ideologiche, perde verità, diventa inautentica, fallisce l’obiettivo, non dice più nulla della vera identità del reale, proponendo alternanza senza alternativa. Suo compito è mostrare l’irrazionale di questa esistenza e non farsi fagocitare dalla fabbrica dei consensi, pronta a neutralizzare ogni passione. La tecnica è di fatto l’inconscio dell’Occidente, è la forma mentis dell’uomo moderno, tra un po’ non ci apparirà nemmeno più come prepotenza, ma solo come potenza, e avrà il diritto di essere lo scopo della società, proprio come prima lo era Dio. Dio è stato il primo tecnico del mondo, lo ha creato, e la tecnica è l’ultimo Dio. Si affermerà come razionale, perché ciò che vince esiste di fatto su ciò che soccombe perdendo diritto d’asilo. Quando la tecnica diventerà lo scopo di quelle forze che oggi ancora si illudono di servirsi di essa, allora l’uomo sentirà il bisogno di chiedersi cos’è che non ha visto, o quantomeno ripensare al già visto in una luce nuova. E’ il concetto stesso di ESSERE che va messo in discussione, per i severiniani, come significato che sta alla base di tutti i significati. Oggi chi insegna filosofia, non insegna più a pensare, a filosofare. L’ultimo pensatore che si è spinto con audacia verso un pensiero nuovo è Emanuele Severino, ho sempre imbarazzo nel pronunciare il suo nome, perché anche per fargli vanto serve un’autorevolezza che non credo di avere. Severino è lo sguardo che vede l ‘impossibilità del divenire (perlomeno per quella che è la nostra interpretazione del divenire). E’ sulla fede nel divenire che si reggono le sorti del mondo e lui mai si sarebbe accontentato della fede, di quella che il pensiero non riesce a sostenere. Con la sua morte è finito ad oggi il vero filosofare, sono finiti i grandi maestri, le pratiche dialogiche. Dialogare significa arrivare insieme da qualche parte, non significa discutere, lui diceva che la verità s’impone da sé, non è un possesso di qualcuno. La filosofia che si riduce alle logiche utilitaristiche è finta filosofia, diventa un punto d’arrivo, mentre può essere solo un punto di partenza, per quanto imprescindibile. Perché imprescindibile è la verità. Le stesse virtù dell’uomo, se staccate dalla verità, perdono identità: la giustizia senza verità, rende implacabili, il successo senza verità rende arroganti, la ricchezza senza verità rende avari, l’autorità senza verità rende tiranni, il lavoro senza verità rende schiavi. Ci è stato detto che la verità era una pretesa, e che bastavano le certezze della scienza. La coscienza poi, mai potremmo spiegarla, nessun logos potrà mai dire cos’è quel potere potente che sospingere chi lo sostiene e trascina chi l’avversa; come ha fatto l’uomo a liberarsene, senza avvertire la voragine del vuoto lasciato? Il merito evoca parole come verità, coscienza, giustizia. Più di 2000 anni fa Antigone mostra tutti i limiti della giustizia delle leggi di Creonte, perché qualsiasi codice se applicato senza coscienza resta teoreticamente insufficiente. No, non basta aggiungere la parola merito al nome del ministero dell’istruzione, se la coscienza e la verità non contano più, la somma degli addendi conta ancora meno. Il futuro è uno spazio che possiamo solo progettare, saranno i nostri figli ad abitarlo, ma solo se avremo la decenza di compiere un’inversione di marcia sull’uso o meglio sull’usura del pianeta, che ci era stato pur sempre consegnato come il Creato. Ecco perché le parole contano, ma a contare di più è come vengono abitate. Baruch Spinoza rinunciò all’insegnamento universitario (nonostante la sua risaputa povertà) in nome di una libertas philosophandi, che avvertiva come irrinunciabile. Oggi, manco a dirlo Elon Musk, l’uomo riconosciuto dalla finanza, come il grande benefattore dell’umanità è l’uomo più ricco della terra, altro che coscienza infelice del borghese di matrice illuminista. Eppure noi avevamo memoria di un certo Francesco, che in nome dell’amore per gli uomini, aveva scelto la direzione esattamente opposta, che avesse sbagliato strada?
ANNA FERRARO
Rinunciare alla coscienza è ipostatizzare l’inferno qui e ora. Due modi ci sono per non soffrire: il primo è accettare l’inferno e farne parte fino a non vederlo più; il secondo, è più rischioso, perché esige attenzione e cure continue, consiste nel cercare e saper riconoscere chi e che cosa in mezzo all’inferno, non è inferno.
CIT. ITALO CALVINO