Il trenta per cento dei pazienti con cancro muore in strutture ospedaliere destinate al contrasto di patologie acute, generando gravi sofferenze umane e familiari. Necessario, dunque, un nuovo modello di assistenza per i pazienti, meno centrato sull’ospedale e più orientato a forme alternative. Con ricoveri diurni, maggiore coinvolgimento dei medici di famiglia nelle fasi successive ai trattamenti nosocomiali e servizi ambulatoriali, domiciliari e residenziali. La richiesta è contenuta nel V Rapporto sulla condizione assistenziale dei malati oncologici presentato al Senato dalla Federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia (Favo) alla vigilia della Giornata Nazionale del Malato oncologico, il prossimo 18 maggio.
Il rapporto, predisposto dall’Osservatorio sulla condizione assistenziale dei malati oncologici, denuncia gravi carenze. Ad esempio, a fronte di 598 posti letto in hospice in Lombardia e 241 in Emilia Romagna, se ne registrano solo 20 in Campania e 7 in Calabria, mentre vi sono 27 strutture con servizio di radioterapia in Lombardia, 7 in Puglia e 3 in Calabria. E il fascicolo sanitario elettronico è utilizzato solo in 5 regioni. Un altro esempio. Rispetto ai 1.015 centri che si occupano di cancro del colon retto, solo 196 risultano adeguati; dei 906 del tumore della mammella, solo 193; dei 702 del polmone solo 96 e dei 624 della prostata solo 118.
Drammatica anche la situazione dell’assistenza domiciliare, con marcate differenze regionali: si va dai 153 casi per 100 mila abitanti in Toscana ai 91 nel Lazio fino ai 34,6 in Emilia Romagna. Preoccupante anche la disomogeneità territoriale nella distribuzione dei centri di Radioterapia oncologica: dei 184 totali, 83 si trovano al nord, 51 al centro e 50 al sud. Migliorano invece, rispetto al passato, i servizi di terapia del dolore, presenti nell’85 per cento delle realtà sanitarie, divise tra 89 per cento al nord, 81 al centro, 80 al sud e isole.
Essenziale, quindi, per la Favo che ogni struttura preveda, oltre a punti informativi e al supporto psico oncologico, servizi di riabilitazione dedicati e che sia anticipata l’integrazione della terapia del dolore e delle cure palliative nel corso del trattamento, evitando la frammentazione degli interventi ed il ritardo nella presa in carico del paziente a domicilio. Solo così si raggiungerà una reale applicazione del Piano oncologico nazionale 2010-12”.
“Esistono criticità anche per alcune oncologie mediche, presenti in piccoli ospedali, prive degli indispensabili servizi di supporto e con casistiche assistenziali inferiori al minimo necessario per garantire esperienza sufficiente e trattamenti adeguati. Evidenze scientifiche dimostrano che strutture con bassi volumi di attività presentano statisticamente maggiori rischi per i malati con incrementi significativi della morbilità e mortalità specifiche – sottolinea Stefano Cascinu, presidente dell’Associazione italiana di oncologia medica -. Queste criticità possono essere superate dalla costituzione delle reti oncologiche. Dopo tanti anni, solo poche Regioni si sono dotate di questi strumenti”.
Nel nostro Paese, vivono circa 1 milione e 285 mila persone che hanno superato la soglia dei 5 anni dalla diagnosi senza ricadute e tornano alla vita di tutti i giorni. Riprendono il lavoro, praticano sport, fanno figli. All’esito positivo relativo alla fase acuta della malattia, si accompagna una preoccupante carenza dei servizi per i nuovi bisogni che insorgono nelle fasi, sempre più estese, della lungo sopravvivenza. L’attività del volontariato, l’integrazione dei servizi socio-assistenziali degli enti locali e le provvidenze economiche dell’Inps riescono solo in parte a supplire alle carenti risposte del Servizio sanitario nazionale.
Complessivamente in Italia vivono 522.235 donne che hanno ricevuto una diagnosi di tumore alla mammella, pari al 23,3 per cento del totale dei pazienti che hanno ricevuto una diagnosi di tumore. Un’indagine Censis per conto della Favo dice che la prima reazione alla diagnosi è connotata dalla paura, indicata da oltre il 37 per cento degli intervistati ma segue, con oltre il 30 per cento, la voglia di reagire, e ancora incredulità, per 22,7 per cento delle intervistate e rabbia, al 20 per cento. In seguito all’insorgenza della patologia, è stato licenziato il 3,4 per cento dei pazienti con tumore alla mammella intervistati e ad aver dovuto dare le dimissioni, cessare l’attività commerciale, professionale o artigianale è stato il 6,2 per cento. Oltre il 42 per cento è stato costretto a fare assenze associate alla patologia ed alla cura, il 33,1 per cento rileva che si è ridotto il suo rendimento suo malgrado, il 16% per cento circa ha dovuto mettere da parte propositi di carriera.
Il report aggiunge che è forte il rapporto con l’oncologo, l’83,6 per cento dei pazienti ha un proprio oncologo di riferimento, e buono il grado di informazione dei pazienti sui farmaci antitumorali con i quali è stato curato o con cui viene attualmente curato, indicato dall’86,8 per cento. Il 77% per cento definisce ottimi o buoni i servizi sanitari di cui ha usufruito, mentre solo il 44 per cento giudica positivamente i servizi sociali. Anche la presente indagine conferma l’elevatezza del costo sociale relativo al tumore alla mammella: il costo sociale totale complessivo annuo relativo all’insieme dei malati con una diagnosi di tumore di al massimo 5 anni, risulta pari a 7,3 miliardi di euro, mentre il corrispondente costo sociale medio pro capite è pari in media a 28 mila euro.
Nella metà degli ospedali italiani mancano i servizi di riabilitazione, fondamentali per la qualità di vita dei pazienti colpiti da tumore. E, se presenti, risultano quasi esclusivamente disponibili per la sola riabilitazione fisica delle donne operate per carcinoma mammario.
di Marino Petrelli