E’ un rilettura di De André sulle minoranze, sulla necessità di difendersi da parte di chi non accetta "le leggi del branco", su coloro insomma che devono pagare per difendere la propria dignità: gli unici che attraversando l’emarginazione e la solitudine riescono ancora a "consegnare alla morte una goccia di splendore" Una sorta di salmo di invocazione sulle minoranze.
Ebbene anche la nostra sarà, dev’essere una preghiera fuori misura, cosmica, elettrizzante. Che si estenda anche agli Amici infermi e a quelli in qualsiasi difficoltà di vita. E da minoranza potremo trasformarci nella maggioranza di chi vuole un paese solo un tantino più vivibile, a dimensione d’uomo , con le sinuose colline a scala che fanno da cornice a un paesaggio bello e indulgente, che fa vibrare, trasalire , invocare. E in cima alla scala la passione per Teano, una fiamma, un falò che brucerà, se sincera, i residui tribali dei detriti della disattenzione, dell’incuria, del perbenismo interessato. Quella passione trasmessami dal Canonico Don Arminio De Monaco e che da anni tento di partecipare, con affetto, a chi sa ascoltare. Il Canonico De Monaco, a dire il vero, era abbastanza pacifico. Si limitava a qualche ramanzina o al massimo a incollare uno schiaffo sulla faccia da schiaffi di qualche seminarista impudente, o ad apostrofare, irritato, il nipote acquisito don Ciccio: “Ah, mia nipote in moglie a un uomo qualunque.”
Don Ciccio, imperturbabile replicava sbrigativo: “Ezzitte zi’ Armì.” E lo aveva inesorabilmente e quasi galantemente freddato, con quella specie di infantile nonsense.
Il buonuomo aveva commesso l’imperdonabile imprudenza di candidarsi con il montante partito di Giannini l’Uomo Qualunque. Bei tempi… quando si rideva per un niente, si giocava con le nuvole, si mangiava pane e speranza, ci si scaldava al sol dell’avvenire. Quando per il Corso, di sera, veleggiava una variegata umanità e i bar coi loro tavolini messi fuori come panni appena lavati invitavano alla sosta e a piacevoli
chiacchierate. Con la birra schiumante e montagne di gelati artigianali.
Era bello a vedersi, il canonico De Monaco segaligno e allampanato con un naso da Cyrano, durante la messa natalizia, preludio al solenne pontificale del vescovo, addobbato a festa come un albero di Natale, paludato da fastosi paramenti barocchi dei vescovi mecenati, fulgidi d’oro e gemme, mentre masticava in sordina preci rituali, intrise di antiche risonanze. Sembrava un sontuoso castellano o il Signore degli anelli.
Con Antonio La Motta, innocente sagrestano di lusso, insaccato in una strabocchevole zimarra liturgica da sacrista fine ottocento, di rosso e bianco, come un cappone augurale, che gli faceva il controcanto col suo approssimativo latino ecclesiastico: Introibbo at altare Tei, at Teum qui laetificatte juventutem meàm.
Ed erano mille risate miste a emozionali lacrime, lavacro estemporaneo per le nostre colpe giovanili. Tante.
Lavabo inter innocentes manus meas……..
E il tempo correva rapido e si rotolava felice lungo i verdi sentieri di un’eterna fanciullezza di lapislazzuli e diaspro..
Una bella sera, quando le luci iniziavano a punteggiare l’orizzonte, solcato da nuvole bambine, profumato d’erbe e di mare e il sole non s’era tuffato ancora nel suo voluttuoso letto di porpora e d’oro, il canonico ci convocò. Armando e me.
Dovevamo accompagnarlo col console britannico rimpatriante, finalmente in pensione, a un “pellegrinaggio” al teatro romano.
Non lo dimenticherò, non posso, anche volendo.
Ritti su un poggio, quattro statue di biblico sale, intenti a tuffarci nella cristallina trasparenza delle sera, in un passato ad alta risoluzione, naviganti solitari, dimentichi l’uno dell’altro, col rischio di perderci e non tornare mai più.
Una brezza sottile e carezzevole pettinava sensuale i bianchi capelli svolazzanti del diplomatico, lisciava tenera i pochi rimasti sulla zucca di don Arminio che sembrava recitasse una preghiera.
Parlava invece compunto di atellane, lacrimose tragedie greche, scollacciate commedie plautine, colonnati, vestiboli, ambulacri, mimi, architravi con una scioltezza e un dribbling degni del miglior Rivera.
Era un incanto. Tra verdeggianti mirti e odorosi sambuchi.
Tentiamo di scoprire le bellezze e l’autenticità di una primavera senza inverni. Senza neve. Col senso dell’umorismo in tasca e l’allegria nel cuore. E’ un invito a tutti i cortesi lettori.
Scriviamo la nostra storia che si confonde con quella del nostro Paese, due dimensioni parallele, universi contigui, seducenti, a volte terribili e dispotici che non ti danno il tempo di riflettere o piangere. Pluviali intemperanze. Savane sterminate.
Ti incalzano e non c’è niente da fare, non puoi resistere.
E’ finito il tempo delle mostarde e dei panini, dei canonici De Monaco con diplomatici dagli occhi chiari e i capelli di biancospino, col teatro romano che ti invitava a recitare la vita. Coi piedi saldamente piantati nel presente.
Resta la voglia di sapere ancora, di scoprire, di confrontarsi, di sbocconcellare, assaporando lenti, pane e Teano fino a quando l’Angelo benevolo ci condurrà in una Teano celeste iridata dalle luci della notte, dove S. Pietro ci accoglierà con le sembianze del Professor Raiola e gli Angeli con la celestiale faccia di don Filomeno Cipolla, canonico cantore, indimenticato autore dello Schizzo monografico sulla cattedrale, rifletteranno in argentei specchi di luna e stelle il volto incantato e puro di Antonio La Motta, sagrestano senza macchia e con molta paura che gioioso cantilenerà, questa volta in un latino impeccabile: ”Introibo ad altare Dei, ad Deum qui laetificat juventutem meam…”
Solo così la NOSTRA smisurata, struggente, collettiva preghiera per una Teano che torni ad essere Teano, potrà essere ascoltata , aggiungendovi la forza temperamentale delle idee e delle azioni, con stile, con dignità , passione e soprattutto senza oche giulive.
Giulio De Monaco, 27.VI.2012, h 17,59.
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