E’ spietata. Non risparmia. E’ la guerra. E sì, lo sa bene il nostro protagonista Federico! Ma a lui non importa, qualcosa può avere molto più valore e così pone dei limiti ben stretti alla guerra: Catherine. All’inizio della loro storia i due sono insicuri, non vogliono sbagliare e vincolarsi l’uno all’altro, credono che questo loro amore non sia vero, lo vivono quasi per gioco. In seguito lo assaporano intensamente negli occhi e nel cuore, credono tenacemente in quello che stanno facendo, in quei minuti contati che hanno per restare insieme. Sognano, progettano qualcosa che non raggiungeranno mai nella realtà. Solo il presente gli sta dando soddisfazioni, anche se piccole come briciole, nel romanticismo di notti che avrebbero voluto non finissero mai. Vogliono star da soli, lontani dai rumori e i commenti della gente, non vogliono tradirsi. E perdersi mai nel volteggiare alato delle mani e dei pensieri. Poi Federico va al fronte; in qualche modo Catherine cerca di non lasciarlo solo, gli dona una parte di sé, la medaglietta di S. Antonio. Non accetta il suo addio. E non vuole disperdere nell’oblio e nelle lacrime qualcosa di così prezioso che ha appena trovato. Ma la guerra non risparmia e grida le sue subdole ragioni, furente. Già Federico dovrà sopportare il dolore della gamba, il colore violaceo scuro della cicatrice, che come macigno di crudeltà pesa fuori e dentro di lui, difficile da accettare: il dolore è la sfida a cui l’ha condannato la guerra e per la quale si paga un prezzo da condividere sempre con gli amici. Ma lo supererà questo dolore, ce la farà: la donna che lui ama non se n’è andata e non se ne andrà mai, gli offre la sua forza. Ma la guerra vuole strappare brutalmente Federico da chi gli regala qualcosa di unico e indimenticabile, vuole cancellargli quelle poche speranze che ha ancora. Federico fugge. Fugge da questo mono atroce, che lo fa star male ed è ricercato per quello che non ha fatto. Forse proprio per la sua innocenza di sentimenti. La Svizzera sembra una meta lontana, che non arriva mai: la paura è la fretta per non farsi scoprire, il batticuore fino all’ultimo momento. Sentono che non possono più separarsi, rischiare ancora. Vogliono essere complici, uguali in tutto, diventare un’unica identità che porta il nome della gioia. Il culmine della vita: la nascita di un bambino. C’è la consapevolezza che il sogno si sta realizzando, è sempre più vicino. Catherine non vuole preoccupare Federico. E allora lui aspetta, vive d’illusioni, non vuole arrendersi all’evidenza: vuole a tutti costi raggiungere il suo sogno, la famiglia. Federico vede il bambino, fragile, appena nato, ascolta il suo pianto, ma per troppo poco tempo: suo figlio si affaccia alla finestra dei respiri, che già è avvolto di nuovo nella coperta oscura della morte. Straziante: vede Catherine, è debole, non resiste e quel terribile giorno rapisce anche lei, dopo gli affannosi sospiri del terribile parto. Ma che cosa pensa Federico di tutto questo? Non vuole dare a vedere lo sconforto, che come pioggia battente lo percuote, né la malinconia che stringerà sempre nell’animo per qualcosa che ormai è senza ritorno, come la pallida statua della donna amata salutata per l’ultima volta.
Mi si consenta di riprendere questo tema che svolsi circa 10 anni fa alle scuole medie, per raccontarvi un romanzo che per me rimarrà senza tempo, con una trama avvincente, carica di emozioni forti e contrastanti, che non è frutto di pura invenzione da parte di Ernest Hemingway, che riflette in essa la sua storia di guerra di guerra e d’amore vissuta negli ultimi mesi della prima guerra mondiale (ha una relazione affettiva con Agnes von Kurowsky, infermiera anche lei proprio come Catherine). Una trama in cui il lettore può ritrovare se stesso e ripensare a quanto può essere terribile l’esistenza nel bene o nel male, sia che si scriva o no il lieto fine.
Rosella Verdolotti