Le giustissime lagnanze di un lettore, pubblicate su questo sito qualche giorno fa, a proposito della “inciviltà” di molti italiani nel mettere in atto le sia pur minime raccomandazioni per il contenimento della pandemia da covid19, come l’uso della mascherina e l’igiene delle mani, per non parlare del mantenimento delle “distanze sociali”, inducono a riflessioni di più ampio respiro.
Già il Direttore Di Benedetto evidenziava, a ragione, la sparizione dai programmi scolastici delle scuole primarie dello insegnamento della materia “Educazione Civica”, introdotta da Aldo Moro ben nel lontanissimo 1958 e se ne rammaricava. Come non dargli ragione: ci insegnava un indispensabile personale e civico nonché civile “comportamento”, che non è mero estetismo, ma modo di essere, di avvicinarsi agli altri ed alle loro cose, di convivere e condividere cose belle e brutte, nel supremo interesse di ricavarne tutti una irrinunciabile “socialità” che ha delle proprie e precise regole. Aggiungerò che il sottoscritto, e dal che dedurrete la sua età, ha studiato la “educazione civica” anche alle scuole superiori, fino al V ginnasio: alle inferiori ci insegnavano a salutare i genitori al mattino e tornando a casa, ad alzarci in piedi se entrava un altro maestro nella nostra aula, a mangiare con la bocca chiusa, ad essere ordinati e puliti nell’aspetto fisico, indice evidente di una equivalente pulizia “interna”, mentale; ed alle scuole superiori ci insegnavano la Costituzione, quali erano gli Organi Governativi, gli iter legislativi, la modalità delle tornate elettorali.
Poi, improvvisamente, il nostro Direttore dice “dopo il ’68”, è sparita questa materia dall’insegnamento inferiore e superiore; e la sua sparizione è sicuramente complice di questo odierno comportamento maleducato, egoistico, pretenzioso, superficiale, edonistico, cafone, di relazionarsi con gli altri e di rispettarli. Ed è anche complice di una ignoranza “sociale” degna del più asino tra gli asini: ricordate le provocatorie interviste di qualche canale televisivo a giovani di oltre vent’anni o addirittura a personaggi politici, che non conoscevano la differenza tra Presidente del Consiglio e Presidente della Repubblica, tra Camera e Senato e meno che mai la storia passata e recente della nostra patria?
Premetto che sono d’accordissimo con tutto quanto afferma l’autore della lettera inviataci, pure quando dice che lo studio della educazione civica se “fosse anche proseguito negli anni non avrebbe partorito un senso civico migliore di quello attuale”, ma vorrei portare un minimo contributo all’analisi dei motivi per cui si realizzano oggi le brutture delle quali giustamente ci lamentiamo.
I tempi cambiano, e per fortuna, aggiungerei; sorgono nuove necessità sociali e ne scompaiono altre, nascono nuove aspettative che sopravanzano le precedenti, si diversificano ruoli e percorsi, si accorciano i cambi generazionali, si avvertono sopraggiunte esigenze, ci si stanca di quelle vecchie, si materializzano nuovi obiettivi, per i popoli e per gli individui. E questo non è male; come non è male rimpiangere quelle stesse cose “passate di moda”, specie quando ci si accorge che il nuovo, almeno in alcuni aspetti, è peggiore, o, nel migliore dei casi, non è più vantaggioso del vecchio. Quello che è male è non avere il coraggio di riconoscerlo, per il terrore di sentirci o farci giudicare anche noi “passati di moda”, e di adeguarci al nuovo che non funziona, contribuendo a non farlo funzionare anche per il futuro, di sentirci “à la page” con la modernità e l’attualità.
Orbene, per un “relativista” quale mi compiaccio di essere, non esistono verità assolute, meno che mai tra quelle che dovrebbero essermi imposte da altri modi di vedere, così come sono un convinto sostenitore della “tolleranza”, virtù liberale proclamata da John Locke e da François-Marie Arouet de Voltaire. E quindi accetto senza batter ciglio la ineluttabile trasformazione dei tempi, e mi rendo conto che oggi, in tempi di delirio digitale, sarebbe stupido studiare ancora la “bella grafia” o la “economia domestica”. Ma assolutamente non è stupido studiare la “buona educazione”, perché in tempi di globalità totale, essa resta sempre la base di ogni “relazione interpersonale”.
E, sconfinando nuovamente nel campo della filosofia, grande maestra di vita, non devo dimenticare quel “contratto sociale”, per dirla con Rousseau, che, all’atto della mia nascita, non ho potuto non firmare con quella “società” che ha pensato, creandone fino ad allora i mezzi, a farmi nascere, a farmi crescere, ad istruirmi, a fornirmi i mezzi per divertirmi, per farmi spazio, ed alla quale devo “tutto”, e devo farlo in maggior misura per garantire a quelli che nasceranno domani un altro “contratto sociale” più ricco di offerte.
La mia firma immaginaria posta sotto quel contratto contestualmente al mio primo vagito mi impegna ad aver rispetto di tutti, della loro vita, della loro salute, del loro benessere, della loro “libertà” che deve confinare con la mia: ed allora devo mettere la mascherina, devo lavarmi le mani, devo evitare fonti di contagio, se voglio garantire a quella società che ha permesso ed ascoltato il mio primo vagito, di ascoltarne ancora per una infinità di altri uomini.
Da ultimo, e mi scuso per la lunghezza dello scritto, mi si lasci illustrare anche una pecca della “politica” che al giorno d’oggi, per colpa forse di una eccessiva “trasparenza a doppia direzione” lascia che molti governanti, anziché regolare e modulare nel comune interesse le nuove tendenze sociali, le cavalcano, le spronano, le fomentano, le incentivano, le guidano al solo scopo di ricavarne un interesse, politico per carità, proprio. Sono i politicanti da strapazzo, di quelli che, probabilmente, non hanno mai studiato la “educazione civica”, e che non si rendono manco conto di quanto male fanno alla società nel dipanarsi del suo futuro, quando si battono per una non ponderata modernità. Parlare di monopattini o di banchi con le rotelle o di bonus vari servirebbe solo a dare un esempio.
Ma non vogliamo girare il coltello nella piaga.
Claudio Gliottone