"Ti amai in quel secondo in cui sentii il battito del tuo cuore. Ti amai prima che tu nascessi, già sapendo che andavi a morte per tutti. Quando vidi il tuo volto ti amai ancora più appassionatamente . Avevi un minuto di vita soltanto e già sapevo che saresti morto per darci Vita. Già ero consapevole che il nostro cuore può volare fuori dal corpo".
Fu proprio a ridosso della Pasqua di tanti anni fa che Mons. Sperandeo ci ordinò a bruciapelo di fiondarci a ripescare le tre grandi tele della chiesa monastica di S. Maria Indentro (Cappelloni), che da gran tempo si disfaceva negli argentei pleniluni di pie intenzioni restauratorie. Prima che fossero involate da altrettanti pii benintenzionati o si frangessero nei flutti tumultuosi di un’umidità ferocemente incalzante, in un ambiente stillante solo salnitro e nostalgia. Ce lo ordinò in un batter di ciglio, senza possibilità di riscontri o repliche. Fenomenale! Mentre quel robusto armadio di Suor Clementina, augusta tiranna e nume tutelare dell’ episcopio, ci appiccicava addosso, ridendo, con serafica rudezza elegantissime palandrane dal colore innominabile, a protezione dei cumuli di polvere e delle palpitanti legioni di insetti che vi si erano installati .
Partimmo intrepidi, ma ci afflosciammo davanti alla realizzazione pratica dell’impresa. Poi, come Dio volle, riuscimmo in qualche modo a liberare quegli splendidi esemplari di arte figurativa e a caricarceli addosso come croci danzanti. Procedemmo in fila indiana, in religioso silenzio, addossandoci agli stretti vicoli come tanti Giuda. Salimmo sfiatati i bassi gradini del settecentesco scalone dell’episcopio, come se dovessimo ardimentosamente consegnare la fiaccola olimpica. Mons. Sperandeo con un largo sorriso a 32 denti ci attendeva nello spazioso salone, avviluppato nella consueta zimarra casalinga, ma con tanto di croce pettorale d’oro e pietre preziose, zucchetto vermiglio e berretta da parata. Sembrava l’ammiraglio Nelson dopo la vittoria di Trafalgar, stagliantesi impavido nella spessa nebbia, trafitta dai bagliori degli ultimi cannoni. Emise un flautato sospiro e ordinò scandalosamente mellifluo: "Piazzatele qua e accomodatevi in libreria". Per chi non lo sa la libreria era la liquoreria, la vineria e la dolciumeria dell’insuperabile Zì Matteo, come affettuosamente lo chiamavamo con suo immenso piacere, dove festeggiavamo le occasioni solenni con Lui, che ci osservava sornione e soddisfatto. Ora le tre belle pale d’altare dei Cappelloni dimorano nel salone del palazzo vescovile, in bella mostra alle pareti dove, di notte, ancora scivola e trascolora l’enorme ombra scura di Mons. Tommasiello di felice memoria. Furtiva, sinuosa,anguillare.
La tela centrale è un’incantata rappresentazione dell’Ultima Cena. Di sobrio equilibrio di forma e colori, a prima vista non sembra granché, ma poi a guardarla bene, l’osservatore vi si immerge in profonda pienezza, totalmente partecipe del mistero, muto, estatico, annichilito. Di intensa compostezza il dipinto di autore ignoto si esprime sapientemente in gradevoli effetti di ombre e luci, abilmente dosati. Con elegante finezza contemplativa. L’impianto narrativo si dispiega con placida armonia in trame sottili e delicate. Al centro della scena tra le nuvole, contratte figure degli Apostoli, gomitoli smarriti, a volte appena abbozzati, profili d’ombra, quasi deconcentrati e lontani, un etereo Gesù dall’incarnato di perla, con un velo di barba, appena accennato si offre nella traslucida trasparenza dei secoli, vittima sciente di un’umanità disfatta e incolore. Compie il suo destino tra arabeschi di angeli e ampi spazi architettonici. Il calice dell’offerta, ben definito su di una mensa sontuosa viene a costituire l’acme e il centro virtuale di una rappresentazione narrativa ciclica e abusata. Tra qualche tempo, breve come singulto di vittima, interminabile come scintilla di eternità, la Beata Vergine dei sette dolori lo stringerà al suo seno ancora una volta. Per l’estremo addio. Le parrà di udire flebile il battito ultimo del suo cuore come timido frullo d’ali di un pettirosso. Volo di bimbo. Un ponte doloroso e bello la unirà al tenero momento quando lo ha tenuto tra le braccia, spaurito infante. Lo guarderà attraverso il languido velo dello strazio dell’ultima alba, bello e trasparente, incantato come nel sonno del primo mattino. Marmoreo. E si scioglierà finalmente in una luminosa nuvola di lacrime primaverili, nella trepida attesa della folgorante Luce della Resurrezione.
Giulio De Monaco