Il “canto”, massimo utilizzo del dono della parola, peculiarità dell’uomo, ha sempre accompagnato i momenti più significativi della sua vita e della sua presenza sulla terra, assumendo di volta in volta concetti e finalità diverse. Nelle sue varie forme è stato emotivo, incoraggiante, catartico, triste e glorioso, ma sempre espressivo di infinite e sfaccettate emozioni, che nascono con esso o da esso sono accompagnate e vivificate. Parole e musica, legate ed accordate insieme, o superandosi l’una con l’altra, rappresentano infine la perfetta sublimazione di immutabili sentimenti.
Un’arte antica di fusione di suoni e di parole nella quale non solo le note , ma anche le parole possono essere “stonate”.
Sono le parole, le frasi, che danno pregnanza al canto: se non sono significative di concetti ed orecchiabili, modulate non meno che la musica, la loro “stonatura”, non solo in senso musicale, ma anche formale ed ideologico, avvizzisce tutto il brano, quando addirittura non sconcerta gli ascoltatori.
Purtroppo è proprio quanto si sta verificando oggi, dove l’uso della parola in musica è diventato sempre più esplicito ed, ahimè, scurrile, oltre che degenerante, anche nelle tonalità, in una tradizione vocale che non è la nostra.
Cadenze sempre più gutturali di chiara provenienza medio-orientale pervadono i nostri testi musicali con gorgheggi che non appartengono alla nostra cultura, ed anche le melodie si adeguano; nulla di male, si potrebbe dire, anche se gli uni e le altre sono distanti mille miglia dalla piacevolezza dei ritmi africani o sudamericani.
E non mi si dica che è frutto dei tempi mutati, perché le canzoni sudamericane o quelle “africans” americane vengono cantate nel loro stile, ma soprattutto nella loro “lingua”: qui siamo di fronte alla peggiore “invasione” della nostra cultura, non nell’apprezzamento di una cultura diversa e magari pure superiore. E ne godiamo!
Molto di male va invece detto per la tendenza al turpiloquio esplicito e gratuito di cui recentemente si è fatto sfoggio, oltre ad altro di pari disgusto, al Festival Nazionale della Canzone Italiana(?) a Sanremo; la parola meno fastidiosa era forse “stronza” con la quale addirittura esordisce una canzone, mentre il “ciao ciao” fatto anche con “il culo” ci lascia particolarmente perplessi, ed il verbo “fottere” viene coniugato in tutte le sue accezioni.
Anche al di fuori di quelle presentate al Festival altre canzoni eccellono nelle allusioni più “fastidiose”, giusto per usare un termine benevolo; una, nel ritornello, recita: “ci siamo incontrati, fottuti, lasciati, e poi ci siamo rivisti, fottuti, baciati nei posti più tristi” ed un’altra ancora –sei un pezzo di “mè”- dove il “mè” è pronunciato con accento fonico acuto, ben lungi dal far pensare ad un pronome personale e più alla contrazione di una parola non proprio di buon gusto, specie all’interno di una canzone che dovrebbe evocare altre piacevolezze.
In conclusione non vi pare che siano comunque di altro livello i testi di Mogol, di Aznavour, di Vecchioni, di Guccini, di De Gregori, di Dalla, di Baglioni, per non dire di E.A.Mario o di Salvatore Di Giacomo; e le voci italiane di Claudio Villa, Mina, Domenico Modugno, Ranieri, Al Bano, e chi più ne ha ne metta?
Stiamo parlando di evoluzione, o non, piuttosto, di involuzione, che si allarga quotidianamente a tutti i settori della nostra millenaria cultura saccheggiata costantemente da tanti?
Giudicate un po’ voi!
Claudio Gliottone