Il virtuoso è certamente meritevole, ma il meritevole è sempre virtuoso? La virtù è un processo di autovalorizzazione, quindi autobiografico, ma che sta anche in relazione a chi mi fa essere. Essere virtuoso è qualcosa di strutturante per il soggetto, ha carattere universale, non è in relazione ai singoli obiettivi meritevoli che si possono raggiungere. La virtù si merita, non è una dotazione, non è il DNA a passarla, non è come la bellezza, l’intelligenza, o il colore degli occhi: è esercizio, ci deve essere un lavoro sulle proprie doti, perché non vengano sciupate. E’ una sorta di strategia di riuscita; ci vuole tempo, atti ripetuti, anche errori, cadute, ci vuole uno sforzo, come per ogni obbiettivo, ma più diventiamo abili nel farlo più lo sforzo è lieve. I processi di formazione vanno accompagnati proprio per permettere ai soggetti questo lavoro su di sè, per poter accedere ad un’autocostruzione, all’edificazione di sè stessi, al famoso castello interiore. Partiamo dall’assunto di Spinosa “dove non c’è potenza non c’è essere”; tutto ciò che esiste è potenza, la virtù è di fatto la tecnica con cui amministriamo la nostra potenza. E’ una parola che non ci piace tanto, sa di posticcio, spesso è riferita a qualcosa che poi virtù non è. Si fa coincidere con l’osservanza dei precetti, con la conformità a norme, fino a vederci un limite alla libertà, una castrazione. Nietzsche dice di essere avverso alle morali che dicono “non farlo “, non è congruente con la volontà di potenza che siamo, che può crescere o diminuire ma non si può conservare. Ma è proprio perché di suo la potenza tende all’oltre, ad espandersi, che l’autoformazione va portata a un livello più alto, deve avvenire in rapporto agli altri, necessariamente. L’inganno è dietro l’angolo, perché noi non sappiamo quanta potenza siamo, è Freud a dirlo, lo tematizza sulla scia del pensiero schopenhaueriano, considerato da Freud il vero padre della psicanalisi. E’ necessario dare misura a quella potenza finita che siamo, per non dissolverci. Lo scarto tra coscienza e potenza fa sì che la coscienza subisca lo scacco della potenza. Oggi più che mai, siamo costantemente stimolati in questa direzione, c’è un lavoro continuo sulla nostra parte desiderante, sulle nostre pulsioni, che nonostante la sovrastruttura culturale, restano il nostro tallone d’Achille. Lo vediamo nella spinta compulsiva al consumo, nelle propagande politiche, nella potenza del web: gli influencer non parlano alle nostre coscienze, anzi non parlano affatto, danno solo segnali, impulsi, non argomentano, non usano parole, la potenza dell’immagine fagocita tutte le altre forme di persuasione, col linguaggio dei segni. La coercizione produrrebbe ribellione, la stimolazione ottiene consenso. Se la libertà è capacità di scelta, noi siamo veramente liberi in un mondo dominato dalla rete? La volontà non è impulso, essere padroni della nostra volontà è virtuoso, in una realtà che tende a farci perdere dietro le nostre voglie. La virtù resta un guadagno anche quando non è riconosciuta, da qui il suo vanto sul merito, che invece per esistere ha bisogno di encomio. La virtù è silenziosa, si realizza anche senza farsi vedere, c’è del resto anche una teologia costruita su una logica compensativa, che in ultima analisi trova appagamento nel riconoscimento ultimo da parte di Dio. Per essere virtuoso il soggetto deve metterci del suo, certo; ma io vengo al mondo perché qualcuno mi mette al mondo, cosa potrebbe mai da sola la mia volontà, dove potrei mai arrivare da solo: devo essere messo nelle condizioni giuste per essere meritevole, se non c’è chi mi educa, se non c’è chi mi forma, come faccio a valorizzarmi. Oggi c’è un deficit di formazione, vista la complessità della società moderna, non riusciamo più ad essere contemporanei del nostro tempo. Il processo educativo andrebbe rimesso al centro dei problemi urgenti. Invece sembrano esserci problemi più immediati che prendono tutta la scena: i ministeri dell’economia ma anche quello degli esteri sono i più gettonati, la formazione è lunga, i ministri della pubblica istruzione si scelgono a caso, dal totoministri, uno vale l’altro. L’ultima riforma della scuola si è stati costretti a chiamarla “la buona scuola “per riuscire a legiittimarla in qualche modo, perlomeno nel nome. Così non mettiamo i soggetti nella possibilità di autovalorizzarsi, e soprattutto non facciamo nulla per abbassare le differenze sociali, sempre che si voglia ridare alla scuola il ruolo di ascensore sociale che la nobilitava. Le diseguaglianze non saranno mai annullabili del tutto, ma una società giusta deve creare condizioni di partenza quantomeno prossime, anche per poter poi legittimare quel merito tanto propagandato in questi giorni, perlomeno renderlo più razionale, più equo. Tra tutte le virtù a raggiungere il grado di perfezione è la giustizia, perché è l’unica che riguarda direttamente l’altro. Se il merito fosse una virtù che virtù sarebbe a sfavore degli altri. L’essere avanti va bene come criterio solo se torna poi anche a vantaggio degli ultimi. Una società civile dovrebbe valorizzare le diverse capacità di tutti i suoi soggetti, solo questo può tenere insieme uguaglianza e differenza, L’uguaglianza che sminuisce le differenze, impoverisce la società tutta. E’ la valorizzazione delle differenze che mi arricchisce, che mi salva da una miseria generalizzata. Chi studia per diventare un bravo medico, se lo farà solo per arricchirsi, sarà solo lui a beneficiarne, a discapito di tutti coloro, che oltre alle sue cure mediche, cercheranno uno sguardo umano a cui ogni uomo ha diritto, soprattutto nella malattia, anche per scongiurare l’ignobile sensazione di sentirsi solo un bancomat, perdendo l’ultimo briciolo di dignità, già messa a dura prova dalla malattia. Se un accumulo di vantaggio di qualcuno diventa ostacolo per chi sta dietro, non va bene, non può andar bene. Altro che invidia sociale, sarebbe il caso di smetterla di pensare che chi sta dietro è perché se l’é cercata, altro che flat tax: la scala fiscale non l’hanno inventata i comunisti, ma i liberali, perché un accumulo di ricchezza non può diventare una barriera all’avanzata dei più deboli, sarebbe la negazione di ogni emancipazione reale, di ogni progresso degno di questo nome. La logica del merito senza la logica del pari merito, non è una logica, è una macchinazione. Noi sappiamo tutto delle diseguaglianze: le tipologie, gli effetti, come si misurano, eppure non troviamo un modo per ridurle, siamo bravi nella diagnostica, molto meno nella terapia. Questa discrasia tra analisi e cura ha motivi culturali, ma anche economici e politici. Già Aristotele aveva intuito il problema, e a differenza di Platone che pensava ad un governo dei migliori, capisce che se vogliamo una vera democrazia, anche l’ultimo cittadino dovrà poter dire la sua. Nessuno è così GREZZO da dire che gli vanno bene le diseguaglianze, allora per legittimarle si dà colpa, a chi sta dietro nella scala sociale, di non aver avuto abbastanza merito per raggiungere gli altri. A sostegno di questa tesi ci sono diverse scuole di pensiero, una delle teorie più note è la TRCKLE DOWN, o effetto dello sgocciolamento, dimostrata e non solo affermata come sbagliata. L’aforisma che la sorregge recita: ”una marea che sale, solleva tutte le barche “.Non è vero, naturalmente, ma a scriverlo è solo papa Francesco nella sua Evangelii gaudium, dove afferma che una marea che sale solleva solo le barche buone, quelle basse, mal tenuto non ben ancorate vengono sommerse. Lo sgocciolamento è stato di fatto drenato tutto vero l’alto, nemmeno per sbaglio è arrivata giù qualche goccia agli assetati. Non è vero che se aumenta il PIL in qualche modo ce n’è per tutti. Andrebbero regolate le leggi sulla redistribuzione del prodotto nazionale, tra i salari, i profitti e le rendite. Le politiche di redistribuzione dovrebbero essere un valido strumento per la lotta alla povertà, eppure non hanno fatto altro che aumentare le diseguaglianze, la politica sembra amare così tanto i poveri da moltiplicarli. Nessuna pensa che siano problemi di facile soluzione, perché le diseguaglianze hanno dietro un assetto strutturale che prevede possibili soluzioni solo a medio lungo termine, ma sono 30 anni che in Italia il reddito medio pro capite non cresce, è aumentato dello 0,14 %, nonostante l’aumento del PIL. La legge di Okun dice che se aumenta il PIL aumenta anche l’occupazione; ma questo era vero in un mondo non globalizzato, senza digitale. In tempi di flessibilità e delocalizzazione si produce dove costa meno, leggi apparentemente giuste mostrano gap che fanno saltare le regole del gioco: le diseguaglianze non sono un fatto naturale ma sono strutturate da regole politiche ed economiche che sono servite a creare una società verticale, lasciando noi a litigare per una superata dicotomia destra sinistra, che serve a distrarci dalla vera camera dei bottoni dove l’unico movimento possibile è anabatico, ascensionale. Le virtù sono più contagiose dei vizi, basterebbe farne un riferimento, come si fa con tutto ciò che si vuol far passare. In Italia è prevalso Beccaria con il suo Dei delitti e Delle Pene e non Giacinto Dragonetti, la cui opera era addirittura introvabile, titolava Delle virtù e dei premi, roba noiosa per una società dove essere virtuosi, vuole dire farcela, anche a costo di sopraffare gli altri, con metodi spietati e sleali. Figuriamoci chi si azzarda a farsi vanto di essere una persona perbene, che preferisce perdere piuttosto che scendere a compromessi con la propria coscienza, se questo significa anche restare indietro nella scala sociale. Come poter pensare che possa essere una virtù? E’ questo il paradosso, è questa l’irrazionalità del nostro tempo, o preferiamo pensare che sia colpa dell’evoluzione se da un’ameba di 3 miliardi e mezzo di anni fa siamo arrivati a Donald Trump, passando da Gesù, da Socrate e da San Francesco, tutti ingenui che hanno avuto la pretesa di pensare che l’uomo “o è umile o non è “. Una società che vuole progredire deve incentivare i buoni. La virtù, se solo ricordassimo da chi e da cosa ci è arrivata, sarebbe più contagiosa del vizio. Dragonetti e tutta la scuola napoletana: Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri, sono stati dimenticati in Italia, ma non nel resto del mondo, dal 1760 sono stati tradotti in più lingue. Nella stessa dichiarazione d’indipendenza di Philadelphia, Dragonetti è citato quattro volte (da qui la radice della filantropia americana, per quanto oggi anche lì si fa fatica a contestualizzarla). Se l’utilitarismo, che ha avuto il suo cominciamento proprio con Beccaria, non riesce più ad essere spodestato dall’uomo virtuoso non ci trascendiamo più, saremo solo immanenza. E’ un attimo, non è poi così difficile ad essere tutti Adolf Eichmann se il mero rispetto all’obbedienza non ci vede accesi con la nostra coscienza critica. La storia insegna che poi un male banale, come potrebbe sembrare quello di eseguire ordini senza interrogare la nostra coscienza, non è poi così banale. Usare la Shoah a paradigma del male assoluto non basta a togliere tutti noi dalla sbarra degli imputati, anzi dovrebbe servire a ricordarci che, se abdichiamo a pensare, l’uomo resta quello che il suo tempo lo fa essere, al di là del bene e del male. Se il genocidio degli armeni non viene mai nominato è solo perché non si conosce. Gli armeni non avevano certo la cultura degli ebrei, è sempre il sapere che ci può salvare, lo dico ai giovani che se vogliono essere veramente eversivi e cambiare questo status quo devono leggere i classici, Goethe, Dostoevskij, e farne esegesi come sublime ed emancipativo atto di ribellione. Altro che alcool e droghe chimiche, quelle servono ad essere perfettamente in linea alle mode del momento, servono a rendervi manipolabili, proprio lì dove vi sembrerà erroneamente di commettere il massimo della trasgressione. Bisogna tornare a guardarci, l’io da solo produce disincantamento. La virtù dell’umiltà piuttosto che del merito può essere la vera emancipazione, se vogliamo tornare a parlare di progresso, quello vero però, dobbiamo passare per forza dal noi: Conditio sine qua non, perché il prossimo non sia solo un “carico residuale” e perché l’umanità possa essere tale di fatto e non solo di diritto.
ANNA FERRARO
Nicoletta Palladini è l’ultima operaia vittima dell’ennesima tragedia sul lavoro. Da 26 anni lavorava in fabbrica, dalle dieci di sera alle sei del mattino, tirando su due figli fino all’università e, Dio sa come, accudendo anche una mamma invalida. Per i parametri contemporanei era un’invisibile. Eppure di rado capita imbattersi in una vita così piena di senso. Cit. MASSIMO GRAMELLINI dal Corriere della Sera.