Ero agli inizi della mia carriera professionale, giovane ventiquattrenne, ed assolvevo uno dei miei primi turni di Guardia Medica in Ospedale; avevo assistito una signora che aveva partorito un bel bimbo “vivo e vitale”, quando entrò in sala una suora, una di quelle che all’epoca erano le colonne di una assistenza sanitaria fondata soprattutto su naturali rapporti umani, lontana anni luce da ogni delirio digitale. La suora gettò uno sguardo veloce sul bimbo, già bello e sistemato nel suo lettino, ed esclamò con estrema naturalezza: “che bello: da oggi ci sei anche tu!”.
“Da oggi ci sei anche tu” è la frase che da allora mi risuona in testa e mi rasserena il cuore quando vedo affacciarsi al mondo una creatura dotata di vita; “ci sei anche tu” è la frase che mi ripeto costantemente, con sentito rispetto, con grande amore, con discreta partecipazione, ma con infinita gioia, quando vedo qualunque essere vivente, sia uomo od animale, una pianta spontanea o un albero secolare. Tutti partecipi di questa grandezza che è “la vita”, senza distinzione alcuna, senza finalità diverse da quella di essere vissuta avendone perfetta coscienza della unicità e della bellezza, qualità che affrontano e trascendono ogni generale sofferenza.
E qui si inserisce un altro pensiero, perché, forse l’antagonista della vita non è tanto la “morte”, della quale, diceva Epicuro, non dovremmo aver paura proprio perché se arriva lei non c’è più vita e quindi non c’è più capacità di avvertire alcunché, almeno di terreno. È la “sofferenza”, invece, il male della vita, quasi la sua antitesi, sia essa materiale o morale, e che, per l’esatto motivo di essere percepita da ogni essere vivente, li accomuna nella sua essenza, non il pensare o il non-pensare, non il progettare o il non-poterlo fare. Non credete che un cane, o un gatto, o un elefante, o una mosca, o una gallina non soffrano se si feriscono o subiscono un danno fisico, o anch’essi una malattia? E che il loro dolore diretto o provocato dalla relativa impotenza funzionale possa essere minore di quello di un uomo, solo perché loro “non hanno un’anima”? E non credete che soffra anche una pianta se le si spezza un ramo, o un albero se lo si abbatte? Non credete che sia invece la certezza del contrario che ci autorizza a maltrattare piante, animali e tutta la natura, sol perché ci siamo creati l’alibi della “non anima”?
La sofferenza supera le distinzioni dell’“anima” e ci accomuna nella “vita”; insegnamento disatteso, tant’è che troppo spesso, con i nostri comportamenti, provochiamo sofferenza a noi ed agli altri esseri viventi. La sofferenza è quella che tormenta la vita, e che può accompagnarla sin dal suo nascere e che certamente è presente, in larga maggioranza delle persone, nel suo finire. Eppure, la vita, capace di concentrare tutte le sue energie in un seme, che ne trattiene le potenzialità per secoli e millenni, per sprigionarli al primo verificarsi di favorevoli condizioni ambientali, richiede, per sopravvivere in molti casi, di sacrificarsi in tantissimi altri. È quel che avviene per garantire l’alimentazione di tutti gli esseri, in un ciclo definito naturale, ma non per questo meno drammatico: la mia vita deve arrestarsi per consentire la continuazione della tua! Nasce da questo, ragionando sempre e solo secondo natura, all’interno della “vita” una scala di valori nei quali la “ragione”, ammesso che per qualche momento si soffermi a pensarlo, non può che smarrirsi; ma quando poi cerca di darne una egoistica e presuntuosa spiegazione, inventa una superiorità del genere umano legata proprio al fatto che sia il solo a possederla, la ragione, o, peggio, che esso sia il genere preferito dal Creatore, nel quale Egli non si è disdegnato di creare la sua immagine. Per quanto ci si possa afferrare alla fede, riesce sempre difficile giustificare “l’agnello sacrificale” o il leone che sbrana la gazzella.
Illuminante la considerazione che fa Vittorio Sgarbi nella Introduzione al suo libro “Leonardo, il genio dell’imperfezione” laddove dice che “ognuno di noi, tendenzialmente, ha bisogno di Dio perché ha paura della morte. Questo differenzia l’uomo dall’animale: l’animale si limita ad esistere, non crea storia e non lascia memoria. Conosciamo l’importanza dei gatti al tempo degli Egizi, o del cane alla corte dei Medici, ma non esiste un libro, non c’è un’architettura concepita dagli animali, perché essi mancano della consapevolezza della necessità di eternarsi. Ogni persona, anche la più semplice, anche la meno creativa, sente il desiderio di non morire. La persona comune risponde a questo bisogno con la fede, per sperare in un altro mondo”. L’artista afferma poi, per sopravvivere lo fa con l’arte.
Quindi nella “necessità di eternarsi”, nel “desiderio di non morire”, ma di continuare la presenza su questa terra con i prodotti creati dalla propria esistenza, ed in primis l’arte o il lascito di una vita esemplare, coraggiosa, altruista, utile; in questo andrebbe iscritta la superiorità dell’uomo.
Ma quand’egli pone fine con violenza alla vita di un altro uomo, penserà mai al “desiderio di eternarsi” o “di non morire” della sua vittima o se questa avrà fatto in tempo ad edificare qualcosa che ne preservi o ne trasmetta il ricordo? Certo che quando Achille combatte con Ettore, e lo atterra, sa che proprio in quel combattimento è riposta “la necessità di eternarsi” del suo antagonista, ma quando un aviatore, il generale Paul Tibbets, a bordo del bombardiere Enola Gay, il 6 agosto del 1945, preme il pulsante per sganciare la prima bomba atomica, scherzosamente chiamata Little Boy, perché in certe circostanze si ha anche coraggio di scherzare, sulla città di Hiroshima, pensa a quante migliaia di uomini non avrebbero avuto possibilità di eternarsi e siano passati dalla vita alla non vita senza neanche il tempo di averne paura? Si può credere, però, che tutti avessero la fede e sperassero in un altro mondo, e ci siamo tacitati così la coscienza, ma abbiamo annullato la nostra pretesa superiorità sugli animali quando, nella fulmineità di un attimo, abbiamo negato a migliaia di altri uomini la possibilità di eternarsi, di differenziarsi cioè da loro. Ed il frutto di tutto questo nasce, contraddittoriamente, proprio dalla superiorità dell’uomo, capace di giocare persino con gli atomi, trasformandoli ed asservendoli ai propri desideri, e di sovvertire elementari leggi di sopravvivenza. E se alla superiorità dell’uomo manca l’amore ed il rispetto per l’altro uomo, come potremmo pensare che lo abbia per gli animali?
“L’animale si limita ad esistere, non crea storia e non lascia memoria.” Ed allora dovremmo avere quanto meno il dovere di lasciarlo esistere fino a quando natura ne stabilisca la fine, come vorremmo che avvenisse per noi, perché la cosa più grande non è una “bella vita”, ma la semplice, naturale e divina ad un tempo, “vita”, in tutte le sue espressioni di apprendimento, di godimento, di relazione, di esaltazione, di mestizia, di dolore e di benessere, di felicità, secondo il metro e la sensibilità di chi ne è il possessore, e nessuno ha il diritto di negarla o di interromperla a nessuno.
Da questi presupposti, Anna ed Alessandra, credo debba partire ogni sana speculazione filosofica.
Continueremo a parlarne.
Claudio Gliottone