di Valeria Merola
Si sente soltanto una voce nell’ultimo romanzo di Antonio Tabucchi, ed è quella di Tristano, il protagonista, malato terminale, che, sul letto di morte in cui è immobilizzato da una cancrena, ripercorre i momenti salienti della sua vita. Eppure, nella scrittura quasi visionaria di Tristano muore sembrano intrecciarsi diversi punti di vista, in una polifonia di voci virtuali, in parte presenti sulla scena del racconto, in parte soltanto evocate o mimate nel ricordo. Le prospettive frantumate si ricompongono nelle parole del narratore, che si confronta con un interlocutore presente e muto, lo scrittore.
Chiamato per raccogliere la testimonianza di una vita e per tradurla in letteratura, lo scrittore è in primo luogo colui che ascolta e che registra. Ma la sua parola è anche quella di Tristano, che giunge al lettore attraverso il filtro della mediazione della scrittura. Ecco dunque che la voce del protagonista e quella dello scrittore finiscono col sommarsi, in una confusione di ruoli che accresce l’effetto polifonico.
Tristano muore è un libro sulla letteratura, che si compiace virtuosisticamente di sperimentare le possibilità affabulatorie della scrittura e la sua congruenza con la vita. Il romanzo è denso di una letteratura che spinge per manifestarsi, come dimostra, ad esempio, la scelta dei nomi dei personaggi. In una bella recensione apparsa sulle pagine de La Repubblica, Paolo Mauri ha notato come la presenza di Hemingway nel personaggio di Ernesto lasci traccia di sé anche nel quadro del soldato italiano in Grecia che aspetta l’8 settembre, o nell’americanizzazione di certe figure, quasi “usando Hemingway come amuleto”. Ma di letteratura sono intrisi anche lo stesso Tristano – che nel nome porta impressa la tradizione epica cavalleresca, fino al melodramma, e, perché no, anche a Leopardi – e Rosamunda, eroina di Schubert.
Tuttavia, la vera dimensione metaletteraria è quella all’origine della stessa scrittura. Tristano muore è un romanzo che si interroga sulle possibilità della letteratura di raccontare la vita, per concludere, con una narrazione rapsodica, scardinata, quasi musicale, sulla difficoltà di ogni rappresentazione che non sia priva di intreccio e visionaria come i sogni, assecondando il ritmo della memoria. Lo dimostra del resto lo stesso sottotitolo, Una vita, che innesca un corto circuito paradossale con l’immagine della morte presente nel titolo. Tristano muore e mentre muore trova la vita e il suo senso. Ma, scrive Tabucchi, la morte è un fatto privato, in cui “non può entrare nessuno oltre a chi sta morendo”. Di qui il paradosso della letteratura, che cerca di violare questo momento di passaggio, per appropriarsene e restituirlo attraverso i propri schemi.
Il racconto della vita di Tristano sfugge ai tentativi di razionalizzazione e si presenta nella sua mancanza di sistematicità e nella perdita di intreccio, che mima il ritmo dell’esistenza e la sua memoria. I ricordi affiorano come allucinazioni, e sfuggono a qualsiasi tentativo di stabilire una logica. Lo dice del resto anche Tristano: “la vita non è in ordine alfabetico” come si crede, sono “briciole”, “ghirigori”, e ad un certo punto “ti viene un sospetto, che il senso di tutta quella roba lì erano i ghirigori”. E allora, da dove iniziare a raccontare una vita? Come imporre un ordine a una vita che precipita nella morte? Le azioni, osserva Tristano, non nascono per miracolo, ma sono già nelle cose: non hanno confini e non hanno perché.
Che cos’è allora il racconto? Nient’altro se non una variazione sul tema della vita: “la musica è già stata tutta suonata” e “a noi poveri cristi non resta che introdurre variazioni”. La letteratura non può avere presunzioni di conoscenza, perché, per quanto possa ricostruire i meccanismi delle cose, non è in grado, osserva Tristano, di penetrarne il segreto. La scrittura può semmai giocare sullo sfasamento tra i piani del reale e dell’immaginario e proporre come vero il verosimile, o anche le allucinazioni di Tristano, che ricorda, senza distinguerle dalla realtà, le fantasie di tutta una vita.
Nella rielaborazione letteraria il personaggio diventa prodigiosamente postumo a se stesso, perché la scrittura lo vede già nel futuro, appropriandosi della sua storia. “Le cose appartengono a chi le dice o a chi le scrive?” chiede Tristano al suo scrittore, mentre traccia i confini di una specularità non solo intellettuale, ma tale da individuare nell’interlocutore un alter ego del protagonista. Lo scrittore si appropria della storia, e la scrive “che sembra un’altra”, perché “la scrittura falsa tutto, voi scrittori siete dei falsari”. La letteratura è allora uno di quegli specchi deformanti, che “lì per lì sembra che riflettano la tua immagine, e invece te la stravolgono, o peggio, la assorbono, si bevono tutto, risucchiano anche te…”.
Ma chi è Tristano? Tabucchi ce lo presenta soprattutto come un eroe moderno, nella tragica condizione di andare incontro ad un destino di cui ha paura. L’eroe ha paura perché non sa di essere un eroe, e perché sogna: “la notte sì che dovrebbe essere celebrata, ma ci vuole fegato per celebrare la notte, perché la notte porta sogni, e spesso incubi, ed è difficile affrontare gli incubi, più che affrontare i nazisti, lì si vede davvero se sei un eroe, lasciami solo, per favore, voglio vedere se riesco a dormire”.
Tabucchi, Antonio
Tristano muore
Feltrinelli 2004, pp.165, euro 14,50
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