Abbiano più volte segnalato come la pandemia da covid, oltre agli enormi danni causati alla salute ed alla vita dei cittadini ed alle loro economie, potrebbe acuire altri negativi aspetti della vita civile; l’essere costretti, ad esempio, ad una limitazione della socialità, può portare a pericolosi distanziamenti, ad allontanamenti di rapporti amicali, o addirittura familiari, che, pur se solidi, possono con il tempo attenuarsi fino a sparire; così come il non poter frequentare centri religiosi, o di arte, o di sport, o di semplice svago, farà nel tempo inaridire ogni animo e ridurne la socialità non meno che la individualità, e ne soffriranno anche coloro i quali sanno finora trovare in se stessi, tramite approfondimenti culturali o di qualunque pensiero, stimoli per non abbrutirsi. Persino il culto dei morti, col notevole e facile aumento di essi, finirà per perdere la sua umana sacralità.
Effetti di enorme gravità, che già Manzoni aveva descritto verificarsi parlando della peste del 1630 a Milano. Ma a questi aspetti riportati dal poeta e scrittore ne mancava un altro, non meno importante e pericoloso. L’occasione che la globalità della crisi virale offre per una ulteriore, sottile., crescente rinunzia ad una identità linguistica, almeno da parte di noi italiani, ed, al contrario, per una sostituzione ad essa della lingua inglese, come se già non bastasse la sua invadente diffusione nel linguaggio cibernetico e nel delirio telematico. All’epoca di “don Lisander” questo pericolo non era manco in “mente dei”, tanto che ne scaturì una prosa italiana di altissimo valore, fonte di riferimento per milioni di studenti classici per ben oltre cento anni.
Ci rendiamo conto che i tempi cambiano e che oggi più che mai, proprio per la già citata globalizzazione, si sia alla ricerca di un linguaggio comune, di diffuso apprendimento e di facile comprensione; quando l’Europa Unita muoveva i suoi primi passi si pensò per essa anche ad una lingua nuova, che facesse parlare e comprendersi tra loro un italiano ed un olandese, ad esempio: l’Esperanto. Ma l’esperimento credo sia miseramente fallito a vantaggio dell’inglese, i cui depositari e custodi manco più fanno parte di quella unità europea.
Parlare la propria lingua non è segno di ignoranza; al contrario, è segno di rispetto verso la dignità di tutto un popolo, il proprio. Quando Mussolini incontrò Hitler ufficialmente per la prima volta, a Berlino, si piccò di parlare in tedesco, quasi a voler dimostrare agli italiani, ma non ai tedeschi, la sua “cultura” internazionale. Quando De Gasperi, alla Conferenza di Parigi, al termine della seconda guerra mondiale, andò a rappresentare l’Italia perdente, che pure aveva avuto la sfacciataggine di dichiarare guerra alla Francia, all’Inghilterra, agli Stati Uniti d’America e persino alla Russia, parlò in italiano, dimostrando grande dignità per sé e per il popolo che, pur sconfitto materialmente e moralmente, rappresentava: “sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me…”, lo ricordate?
Ma quando, all’incirca un anno fa, seicento professori di scuola superiore hanno denunciato per iscritto la incompetenza linguistica di tanti studenti italiani, la cosa comincia a destare, nelle persone pensose, qualche preoccupazione, soprattutto perché il linguaggio resta ancora il più grande motivo affasciante e la lingua è l’essenza ed il riassunto di tutta la storia di un popolo.
Goffredo Herder, filosofo tedesco della fine del settecento, allievo di Kant, impostò gran parte della sua speculazione di pensiero proprio sulla necessità di difesa della lingua nazionale, perché essa è come una pianta che cresce e si sviluppa secondo il clima e la terra, a dalla terra trae le sue sostanze nutritive, e rappresenta l’essenza della storia di una nazione. Può modificarsi, ammodernarsi, espandersi o contrarsi, ma resta sempre identificativa di una tradizione e di un “modus vivendi” che parte da lontano e si sviluppa nel tempo. Non conoscerla, trascurarla, seguire improbabili mode deturpando parole e significati, facendo passare per straniere parole della nostra tradizione o per italiane parole di altre lingue significa far torto alla propria storia. Per non dire del linguaggio cibernetico, fitto di crasi e di ricerche figurative, di neologismi e costrutti che affastellano gli sms, i tag, i blog, le chat, gli mms. Il latino ed il greco sono sopravvissuti per duemila anni e più ai loro genitori: e fino all’inizio del 1900 il linguaggio della scienza, quello che usavano i filosofi, gli astronomi, i fisici, era il latino.
L’ignoranza è un virus pericoloso non meno di quello del covid. Non esistono vaccini, specie oggi che abbiamo distrutto anche la scuola, dove tutto conta, dalle attività ludiche ai crediti, ma dove non regna la suprema capacità di parlare un linguaggio chiaro e comprensibile, quello che si è sviluppato nei secoli dalla carta di Capua e dai placiti di Teano all’ermetismo di Saba, passando attraverso Dante e Manzoni, Carducci e D’Annunzio; e che ci appartiene perché, come la pianta di Herder, si è nutrita della nostra storia, suggendo linfa vitale dalla nostra cultura. E scusate se è poco.
Il dramma è che i nostri politici attuali scimmiottano parole straniere e ce le impongono, ma dimostrano più che ampiamente di non conoscere né l’inglese e tantomeno l’italiano: ed il pesce, è notorio, comincia a puzzare sempre dalla testa.
“Sic est”, giusto per essere coerenti e non smentirci.
Claudio Gliottone